I due primi mesi del lockdown imposto dalla pandemia del Covid-19 hanno reso evidente la distruzione del welfare urbano da parte dell’economia liberista. Il contagio è infatti dilagato senza che nessuno se ne accorgesse in tempo perché a partire dagli anni ’90 era stata smantellata la rete decentrata di tutela territoriale della sanità pubblica, dai medici di base ai piccoli presidi ospedalieri. Nella grande privatizzazione della sanità, non c’era alcuna convenienza nel gestire le funzioni minute di monitoraggio dello stato di salute dei territori. Era più conveniente mettere le mani sul sistema ospedaliero. Si è in questo modo affermata una politica di concentrazione dei luoghi della cura che ha portato alla costruzione di grandi ospedali nelle città maggiori e alla parallela rarefazione delle strutture decentrate di presidio territoriale. 

È come se le lancette dell’orologio fossero state spostate indietro per farci tornare nella città medievale, in cui esistevano ospedali per la cura dei malati ma mancava la concezione del sistematico controllo dello stato di salute della popolazione e dei territori, che sarebbe stato acquisito soltanto nei secoli successivi. Il paradosso è che in quelle lontane città il servizio sanitario era gratuito. Oggi gli ospedali a pagamento sono all’incirca la metà di quelli pubblici. Del resto, le stime più attendibili parlano di una carenza di personale medico vicina ai 50 mila addetti. La sanità pubblica doveva diminuire la sua influenza e, anche per questo, l’Italia vanta il tragico primato in Europa per il numero di morti per contagio del coronavirus rispetto alla popolazione residente.

All’interno del sistema della cura, un ruolo particolare nella diffusione del virus è stato svolto, come noto, dalle residenze sociali assistite (Rsa). Nella città delle regole liberali erano avvenuti rilevanti esperimenti di decoro urbano come la realizzazione del Pio albergo Trivulzio. Una struttura nata dalla filantropia di un mecenate si collocava all’interno della città, ne qualificava le funzioni e ne ricavava un rapporto di integrazione. Negli anni della cancellazione delle regole, conta solo l’estrazione di valore e le città scompaiono. Le ispezioni effettuate dalle autorità pubbliche a seguito dei focolai di contagio hanno messo in luce inadeguatezze strutturali, illegalità e, appunto, la casualità delle localizzazioni, spesso lontane e isolate rispetto al contesto urbano. Non sono state più le regole inclusive a disegnare la rete di quei nuovi servizi. È la proprietà immobiliare ad aver imposto il proprio disegno.

Gli altri capitoli della distruzione del welfare urbano messi in luce dal lockdown riguardano il sistema scolastico e quello dei trasporti pubblici. Il primo si è dimostrato incapace di rispondere alla sfida e i corsi delle classi superiori e delle università sono stati a lungo interrotti in presenza. Quasi tutti i paesi europei hanno lasciato aperte le scuole anche nei periodi di chiusura totale. In Italia no. Il sistema scolastico non è stato in grado di adeguarsi alla nuova fase e, a parte le imbarazzanti iniziative di acquisto dei banchi monoposto, nessun plesso scolastico è stato sottoposto al radicale ripensamento che era lecito attendersi. È noto che anche in questo settore vengono stanziate risorse economiche inferiori a quelle degli altri paesi europei. E, come nel campo sanitario, a causa dei tagli di bilancio degli ultimi decenni, mancano all’appello almeno 80 mila docenti. La scuola pubblica, uno dei pilastri del welfare urbano, è stata resa marginale, specie nelle aree geografiche marginali.

Per il segmento del trasporto pubblico, è il caso di rammentare che di fronte all’incalzare della pandemia, erano stati promessi progetti per il potenziamento della rete locale anche per differenziare gli orari di accesso negli uffici e nelle strutture scolastiche. Dalla fine del primo lockdown sono passati nove mesi e il trasporto pubblico non ha avuto alcun segnale di attenzione. Mesi preziosi gettati al vento, con la conseguenza di aver reso più difficili gli spostamenti nelle aree urbane. 

Ma oltre a questi tre fondamentali diritti dei cittadini smantellati dalla concezione liberista della città, è ormai indispensabile riflettere sulla distruzione della stessa concezione della città da parte dell’economia dominante. 

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