L’ex presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi, a Rimini, martedì 18 agosto, ha inaugurato il meeting estivo di Comunione e Liberazione con un accorato discorso, applaudito nei giorni successivi in maniera pressoché unanime dal mondo della politica, dell’economia e del giornalismo italiani: “I sussidi servono a sopravvivere, a ripartire. Ai giovani bisogna però dare di più: i sussidi finiranno e resterà la mancanza di una qualificazione professionale (…) La società nel suo complesso non può accettare un mondo senza speranza; ma deve, raccolte tutte le proprie energie, e ritrovato un comune sentire, cercare la strada della ricostruzione. Nelle attuali circostanze il pragmatismo è necessario (…) Dobbiamo accettare l’inevitabilità del cambiamento con realismo (…).

Vengono in mente le parole della “preghiera per la serenità ”, di Reinhold Niebuhr che chiede al Signore: Dammi la serenità per accettare le cose che non posso cambiare (…). Un discorso importante, quello di Draghi, come importante è stata la narrazione di tutta la sua carriera. Da ragazzo studiò al Liceo Massimo dei Gesuiti, a Roma. Figlio d’arte (il padre Carlo lavorò in Banca d’Italia, nel 1922, poi per all’ Istituto per la Ricostruzione Industriale, ed infine alla Banca Nazionale del Lavoro) si laureò alla Sapienza (suo relatore di tesi fu Federico Caffè, a cui poi intitoleranno il dipartimento di Economia dell’Università Roma Tre).

Un anno dopo la laurea entrò al Massachusetts Institute of Technology (USA) grazie alla mediazione del prof. Franco Modigliani, di illustre famiglia ebraica, poi Nobel per l’economia. Dopo il dottorato iniziò la carriera accademica, che lo portò ad ottenere importanti collaborazioni sia con il governo italiano, sia con importanti istituti economici, pubblici e privati. Membro del G 30, gruppo di finanzieri e accademici impegnati nello studio delle conseguenze economiche sulle dinamiche mondiali, Mario Draghi è stato da sempre vicino al mondo religioso, sia dal tempo in cui studiò presso la Compagnia di Gesù, sia nelle sue amicizie con importanti membri di Comunione e Liberazione (movimento cattolico laico fondato dal sacerdote Luigi Giussani nel 1954 nell’ambiente studentesco milanese) sia ebraico internazionale.

Draghi, inoltre, è stato insignito il 10 luglio 2020 da Papa Francesco del titolo di “membro” della Pontificia Accademia di Scienze Sociali. Per quanto l’accorato discorso a sfondo etico di Draghi sia apparso superlativo, paragonato al suo imponente vissuto non può  riflettere tutto ciò che avrebbe voluto e potuto dire. Lungi da me ipotizzare cosa una persona pensi, né strumentalizzare le sue parole. Tuttavia credo che Draghi, come anche Mario Monti o la tanto vituperata Fornero, al tempo, nei loro discorsi non abbiano potuto narrare una realtà di fondo che anima la crisi del nostro Paese. L’Italia, ed in senso più ampio l’Occidente (tenendo conto tutte le sfumature e le differenze fra Paese e Paese) hanno subito la prima, grande crisi della globalizzazione. A questa crisi economica è seguita una crisi della sicurezza (Isis) e una crisi sanitaria (Covid-19). Il nostro Paese in particolare si è caricato di una recessione costante, composta da molti fattori, tra i quali primeggia una spesa pubblica di grandi proporzioni. Masse oceaniche di immigrati entrano nel nostro Paese ma le aziende, sfruttando i vantaggi della globalizzazione, de localizzano all’estero, per pagare meno tasse. In tutto questo, in Italia, milioni di lavoratori sono sempre più precari. Il lavoro nero e le pensioni retributive sono parte di questa grande spesa pubblica.

Ma quello che personaggi come Draghi non possono dire – e non certo in pubblico – è che in Italia si è prodotto un cambiamento antropologico causato dall’eco degli anni ’50. L’illusione che saremmo vissuti per sempre in una società in cui tutti avrebbero avuto un posto fisso, di poca fatica, magari a 7 ore giornaliere, casa al mare e in montagna per le vacanze, ed una in città, tutte, naturalmente, di proprietà. Un boom economico post-guerra che ha illuso un po’ tutti, e che ha prodotto una classe giovanile ineducata al lavoro. Di lavoro ce n’è per tutti: ma non il lavoro che tutti desiderano. I lavoratori più giovani, non educati all’impegno, al sacrificio, al lavoro “in sé”, restano in casa dei genitori, non perché non possano permettersi un affitto o un mutuo, ma perché non hanno alcuna voglia di faticare per ottenerlo.

Stanno troppo bene. Coccolati e vezzeggiati, in ampia parte, da quei genitori che li discolpano di tutto, che li accompagnano all’università, ai colloqui di lavoro, che gli preparano il pranzo, gli rifanno il letto la mattina, gli pagano le vacanze (da cosa?) e li apostrofano come “poverini” quando vanno a lavoro, i giovani si trovano ad agognare un “posto” pubblico, sperando di passare dal parcheggio domestico a quello lavorativo. Milioni di ragazzi non ce la fanno a fare i camerieri, le badanti, i vigilantes, i lavapiatti, mentre altri loro coetanei che di voglia ne hanno (soprattutto quelli provenienti dalla provincia) ancora reggono, lavorando il doppio e dimostrando una lena non comune. Ma sono l’eccezione. Poi ci sono gli immigrati. Nel frattempo la filiera del lavoro privato, sia dipendente, sia imprenditoriale, è stato preso da lavoratori stranieri: arabi, indiani, ed altri che, dopo quindici, vent’anni di lavoro a 12 ore al giorno, oggi hanno non una ma due edicole, non uno ma tre bar, non una ma sei lavanderie. Sono imprenditori, perfettamente inseriti nella società economica italiana. E i ragazzi italiani?

I ragazzi, semplicemente, hanno fatica di lavorare. Non hanno più ambizioni, non hanno “fame”; quella fame che portò i loro nonni e bisnonni a costruirsi un avvenire. I figli non si fanno, non perché costino denaro, ma tempo. Senza lavoro, senza casa, senza figli. Questo è il quadro dei giovani italiani, completamente demotivati, impegnati nel cercare la colpa in “qualcun altro”, illusi di trovare un avvenire in Germania o in Inghilterra, come se un posto da cameriere non lo si trovi anche in Italia.

E infatti spesso tornano qui. I giovani e le giovani del nostro Paese non sono portati al lavoro, poiché, da un lato, hanno chi li foraggia (genitori e nonni); dall’altro lato, non sono pressati dal “ricatto morale” dei figli, di dover lavorare senza guardare l’orologio per campare tre, quattro, sei figli, come i loro predecessori. Se non c’è il ricatto di un prestito, di un mutuo, di un figlio, un posto fisso non serve, gli straordinari non si fanno, e alle ferie non si può rinunciare. Questo è un problema per l’economia. Ma questo Mario Draghi non può dirlo.