La candidatura di Conte, sfiorita in poche ore, fornisce lo spunto per riflettere sul modo di agire del Pd. La linea politica appare incerta, se non contraddittoria. Tutto questo pesa sulla vicenda del Quirinale.

Le interpretazioni possono essere molte, anche sofisticate, ma la vicenda riguardante la candidatura di Conte nel collegio di Roma Centro pesa come un macigno sulla bontà e la coerenza della politica delle alleanze portata avanti dal Pd. Anzi pesa, a rigore, sulla politica tout court della segreteria Letta. Quel che resta dopo la rapida conclusione degli eventi, con gli avversari a gongolare per il ritiro del candidato in pectore, è un deficit di padronanza. Conte ha reagito con il solito sussiego, pur celando a fatica il fastidio per un’operazione che nelle forme ricorda il fallimento della mediazione sul ddl Zan: stessa sbrigatività nel gesto e nell’esito. 

Dunque, che cosa accade al Nazareno? È una domanda che merita una riflessione, dentro e fuori le mura del partito.

Se si vuole costruire un’alleanza larga, giocando sull’idea di un Ulivo tutto nuovo, bisogna allora cominciare da un limpido processo dì coinvolgimento, senza pregiudiziali, per dare respiro alla manovra. Gli interlocutori non si individuano a priori, né si scelgono sulla base delle convenienze: in realtà sono quelli che occupano, con la loro autonomia, uno spazio largo abbastanza perchè non sembri all’occorrenza una finzione. Invece la proposta, così come viene normalmente intercettata dalla pubblica opinione, consiste in un amalgama di persistente debolezza ed equivocità, limitandosi a prefigurare la mescola vagheggiata degli elettorati di Pd e 5 Stelle.

Suscita anche perplessità la tendenza a sperimentare sottobanco l’alleanza con Forza Italia, o meglio con gruppi di potere locale che guardano al dopo Berlusconi, puntando a sostituire i Renzi e i Calenda, e nondimeno i riformisti del Pd, nella rappresentanza dell’area più centrale dell’elettorato. Il fenomeno ha preso corpo nelle ultime settimane e impatta, qui e là, sulle imminenti elezioni provinciali. Non si capisce se Letta ignori o faccia finta d’ignorare l’insorgere di questo trasformismo molecolare, a lento rilascio, che sprigiona tossine pericolose per la democrazia. Non dice nulla l’abnorme crescita dell’astensionismo?                     

Tutto questo s’intreccia con l’appuntamento più complicato, quello che riguarda la scelta del nuovo Presidente della Repubblica. È vero, la partita si apre formalmente a gennaio; adesso, ad aprirla, si rischierebbe un contraccolpo sulla legge di bilancio, vista anche l’improvvida rottura di Cgil e Uil sulla manovra finanziaria; tuttavia, come si sa, la partita è in pieno svolgimento. E come giocarla? Fa bene il Pd a voltare le spalle alla ridda delle candidature, ma farebbe altrettanto bene a dichiarare l’inamovibilità di Draghi da Palazzo Chigi. Ecco, questo trincerarsi dietro un giusto riserbo, non garantisce tuttavia il necessario raffreddamento delle spinte più infuocate. In sostanza, il Pd dovrebbe anteporre la stabilità – vale a dire la stabilità di governo – a qualsiasi altro obiettivo politico.

Letta, in conclusione, non può continuare a traccheggiare.