Il regista del film Matteo Rovere, insieme agli sceneggiatori Filippo Gravino e Francesca Manieri, ha scelto di portare le origini di Roma sul grande schermo riproducendo nel modo più fedele possibile quella che era la realtà dell’ottavo secolo avanti Cristo.
Per questo Rovere e il suo team hanno interpellato gli studiosi dell’Università La Sapienza di Roma che hanno spiegato loro come chi abitava i villaggi laziali al tempo di Romolo e Remo parlasse una lingua piena di contaminazioni: è il latino arcaico che risale al terzo secolo avanti Cristo.
E quindi, proprio questa lingua viene usata, per tutto il film, per far parlare i due personaggi.
Ma il merito di Matteo Rovere è nella fotografia eseguita con una luce naturale, dove i raggi del sole filtrano tra le fronde della foresta e solo i fuochi tengono a bada le tenebre della notte.
Una regia che cerca di ricostruire un’atmosfera da racconto eroico e tragico, dando eguale spazio ai più piccoli dettagli di riti magici e religiosi, dei costumi, delle primitive capanne e dell’ambiente naturale. Senza dimenticare lo spettacolo, presente fin dall’apertura con l’onda che travolge i due fratelli in un momento altamente drammatico e visivamente impressionante, dove il lavoro in computer graphic non ha cedimenti.
Allo stesso modo i numerosi scontri all’arma bianca e corpo a corpo non vanno per il sottile, gli stunt men non trattengono i colpi e la violenza è spaventosa e credibile, senza mai il bisogno di ricorrere al sangue digitale.