L’energia con la quale l’Amministrazione Biden nei suoi primi cento giorni di mandato ha aggredito temi rilevanti dell’agenda internazionale ha posto l’Unione Europea nella condizione di dover fornire delle risposte senza essere completamente in grado di farlo, non foss’altro perché non le ha ancora elaborate al proprio interno. Emerge, una volta di più, l’assenza di una politica estera comune e al contrario la dualità di un’organizzazione (Commissione e Consiglio detengono entrambe un ruolo, pur differenziato, nei rapporti con gli altri Paesi) che risulta di difficile comprensione per i governi esterni ad essa. Come il caso della “sedia mancante” di Ankara ha platealmente dimostrato (al di là della provocazione sessista di Erdogan, che però non deve far perdere di vista il problema della diversificazione nella struttura politico-organizzativa e nell’esercizio dei poteri conseguenti che l’UE non sa risolvere).

Biden da subito ha rilanciato l’alleanza tradizionale con l’Europa. All’indomani delle dichiarazioni in tal senso pronunciate alla Conferenza di Monaco sulla sicurezza egli ha voluto dimostrare agli europei la sua effettiva buona predisposizione in tal senso. Non si è infatti limitato a far rientrare gli USA negli accordi di Parigi sul clima (tema sul quale il vecchio continente è all’avanguardia), decisione in realtà già annunciata in campagna elettorale. Per quanto irritato dalla scelta europea (tedesca, innanzitutto) di siglare con la Cina un accordo generale sugli investimenti subito prima del suo insediamento alla Casa Bianca e nonostante il suo invito alla prudenza in argomento, Biden ha per il momento evitato di drammatizzare la questione: precisando però che il rapporto con la Cina è la questione principale che gli Stati Uniti – e l’Europa con loro, se vorrà rimanerne alleata – dovranno affrontare, e senza debolezze, nei prossimi mesi e anni. 

Così pure non ha, sino ad ora, imposto sanzioni economiche o d’altra natura alle aziende che stanno lavorando alla realizzazione del gasdotto Nord Stream 2 tra Russia e Germania, un progetto che oggettivamente indebolisce l’Ucraina (oggi beneficiaria del transito del gas russo sul suo territorio prima di arrivare in occidente), già posta sotto pressione dalla politica aggressiva di Putin. Biden forse, a differenza di Trump, si rende conto della sostanziale impossibilità di bloccare i lavori di una realizzazione ormai quasi completata e ha chiesto pertanto al Dipartimento di Stato di individuare una via che in un qualche modo ridimensioni la portata del problema, magari con la definizione di alcune solide garanzie a sostegno dell’economia ucraina. Inoltre il presidente USA ha messo da parte l’ostilità del suo predecessore nei confronti dell’accordo sul nucleare con l’Iran, fortemente sponsorizzato dalla UE, aderendo alla proposta di Bruxelles di una nuova fase di dialogo col regime degli ayatollah per ripristinare, semmai emendandolo in alcuni punti, l’accordo del 2015. Mossa apprezzata da Teheran, che ha conseguentemente ritirato la minaccia di non collaborare più con gli ispettori ONU.

Questa dimostrata disponibilità nei confronti degli europei non significa però sostegno totale e gratuito a tutte le loro istanze. Non si può dimenticare che il mandato di Biden è innanzitutto di pacificazione interna: la potente campagna vaccinale e il poderoso intervento federale a sostegno del rilancio economico della nazione programmati e avviati durante i suoi primi cento giorni di presidenza sono lì a dimostrarlo. Da questo punto di vista, è ancora “America first” e non potrebbe essere diversamente. Ma la contemporanea strategia delineata per le relazioni internazionali porta a ritenere che la linea conduttrice sia all’insegna di un non meno assertivo “America is back”. Gli USA tornano a occuparsi del mondo ponendo al primo posto non gli affari (che comunque non saranno certo dimenticati, questo è sicuro!) quanto la democrazia e il rispetto dei diritti umani. Individuano due principali alleati, UE e Gran Bretagna (oltre ad Australia e Canada). Lo schema è molto semplice, direi molto “americano”. Gli europei quindi si trovano ora di fronte un alleato che sul loro terreno geopolitico gli indica quanto insidiosa sia stata in questi ultimi anni l’avanzata russa nel Mediterraneo e all’estrema propaggine orientale dell’Europa geografica, mantenendo però – ciò va detto – un atteggiamento ambiguo nei confronti dell’autocrazia ottomana, membro importante della NATO. E che sul piano geopolitico planetario indica il regime comunista-capitalista di Pechino come un problema di massima rilevanza non solo per quanto concerne l’area del Pacifico (presidiata dalla USS Navy ma interessata da un sensibile rafforzamento della Marina cinese e da un atteggiamento di Pechino molto assertivo rispetto alle proprie rivendicazioni territoriali e marittime) ma anche su temi fondamentali per il futuro, dalla cyber-security al clima, dalla tutela della privacy alla digital revolution del 5G.

L’Europa dovrà necessariamente confrontarsi con questi temi. E non potrà così limitarsi a considerare la Cina come un mercato dalle straordinarie opportunità commerciali, come immaginano le industrie tedesche in primis. Un problema non da poco, alla vigilia di elezioni in Germania improvvisamente rese incerte dalla pandemia, come se non bastasse il grande vuoto che almeno per un po’ verrà lasciato dall’abbandono della Cancelleria da parte della signora Merkel. Problema cui se ne aggiunge un altro, sul piano militare: ove Washington ha un alleato fedele e potente non più parte dell’Unione Europea. Un alleato che spende nella Difesa di più di quel famoso 2% del prodotto interno lordo richiesto invano dagli USA agli europei per sostenere la NATO (si vedrà come Biden affronterà la questione) e che da solo valeva oltre un terzo della forza militare UE. Tema delicato, con una crisi economica pesantissima da affrontare. Ma purtroppo ineludibile, con turchi e russi che vogliono prendersi il Mare Nostrum.