“La forza mite del riformismo” è il titolo di un volume fresco di stampa che raccoglie gli scritti di Giorgio Armillei e che ci permette di elaborare alcune riflessioni sul riformismo cattolico italiano.

Oggi il termine e il significato di riformismo sono noti a pochi. Eppure, non sono solo come l’energia per un sistema, necessaria per evolversi e per aggiornarsi, ma sono anche una tensione culturale capace di superare le situazioni di fatto per modificare la struttura o la sostanza del sistema giuridico e politico-economico e sincronizzare il tempo della società al tempo della storia.

Il riformismo cattolico che ha sempre affascinato gran parte della cultura laica è come il lievito nei processi sociali e si caratterizza da due elementi peculiari.

Il primo è quello politico-culturale: lo scopo finale tende sempre al bene comune e si ispira ai princìpi della Dottrina sociale; il metodo è basato sul dialogo incessante e pluralista; lo stile di chi tesse le riforme emerge dall’impegno concreto e libero che porta ad un magis, un più qualitativo nelle relazioni.

Il secondo elemento è di orizzonte: nella storia personale dei singoli (riformisti) si aggiunge un campo di azione, al quale si contribuisce e nello stesso tempo ci si definisce.

L’impegno riformista civile e politico si svolge anche nella dimensione ecclesiale, che include sconti e incontri, incomprensioni e tempi di maturazione diversi nei processi che si generano. L’esempio è il cammino sinodale che la Chiesa sta promuovendo in ogni angolo del mondo che deve tenere insieme tradizione e modernità, forma e sostanza, fedeltà e creatività.

Nel Novecento le ideologie sono state il freno del riformismo. Dall’immediato dopoguerra, la Democrazia Cristiana aveva rappresentato la modalità unitaria (ma dialettica) del riformismo cattolico. A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, la Chiesa italiana e il sistema politico hanno affrontato diversi momenti di frattura.

Il primo è stato nella divisione tra la cultura della “mediazione” e quella della “presenza-identità” che sperimentavano il rinnovamento promosso dal Concilio Vaticano II. Su questa linea di faglia, si sono affermate nuove realtà ecclesiali come Comunione e Liberazione, Mcl e altre, mentre si è stabilizzata la tradizione dell’associazionismo cattolico a cui appartengono Fuci, Acli, Azione Cattolica e altre.

Il laicato cattolico si divide al di qua e al di là di questa prima frattura. È da qui che emerge la fisionomia cattolico democratica, come sintesi tra la lealtà alle istituzioni del cattolicesimo liberale e l’impegno per le politiche promosse dal cattolicesimo sociale.

Nel sistema politico e partitico, invece, la prima grande linea di faglia si genera con la leadership di Zaccagnini e di Aldo Moro nella Democrazia Cristiana.

Il secondo nodo è rappresentato dagli anni a cavallo del secolo quando l’esplosione del sistema politico italiano con la fine della DC e l’emergere di nuovi partiti, rimette in discussione la collocazione e il peso sociopolitico dell’associazionismo ecclesiale, che pur continua ad esercitare un forte ruolo formativo e culturale.

La Chiesa italiana si organizza in modo istituzionale interagendo direttamente con gli attori sociali sulle diverse questioni politiche tramite la CEI, in applicazione del Concordato. Il laicato si trova quindi smarrito tra due opzioni di fondo: seguire la direzione promossa dai vescovi organizzati, sbilanciati sulla ricostruzione dell’identità all’interno della società oppure elaborare una propria linea di impegno autonomo all’iniziativa della CEI verso l’autonomia dei “cattolici adulti”.

Tra questi poli rimane il «grande flusso» della cultura liberale e democratica del riformismo cattolico. Giorgio Armillei nei suoi scritti lo spiega bene quando ricompone le posizioni di Ruini e di Scoppola all’interno dello stesso quadro culturale, come due posizioni di gioco diverse ma nella stessa partita.

Cosa rimane di tutto questo oggi? Forse le cicatrici di ferite che si sono ricomposte e che non sanguinano più. Anzi, queste sono quasi invisibili per la generazione tra i 20 e i 40 anni. Rimane il ricordo di tempi in cui lo spazio e le energie dedicate al dibattito ecclesiale “interno” erano giustificati da una dimensione numerica e da una rilevanza sociale generale dei cattolici diversa da quella attuale.

Alla «prima generazione incredula» ne sono seguite altre di non credenti, agnostiche e atee. Il sistema politico si è più volte ricomposto senza mai rinnovarsi davvero anche dopo la crisi del bipolarismo imperfetto degli anni intorno al 2010. Segue la storia che conosciamo: la crisi economica prima, la pandemia poi e adesso la guerra in Europa che ci tocca da vicino. Con quale visione ne usciamo? In quali principi ci ritroviamo? Quale funzione ha oggi la cultura riformista? Sono alcune domande che ci si pone per rispondere alle esigenze pratiche delle giovani generazioni e a quelle generazioni che si sono lasciate guidare dalle ideologie del Novecento.

 

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