L’assoluzione di Virginia Raggi prosciuga metaforicamente lo stagno delle rane giallo-rosse. Fino all’ultimo il loro sommesso gracidio alludeva alla caduta per via giudiziaria dell’ostacolo residuo, ma nient’affatto trascurabile, che si frapponeva nella capitale al dialogo tra Pd e M5S in vista delle amministrative del 2021. La Corte d’Appello ha messo fine al gioco delle vacue profezie. La ricandidatura dell’attuale inquilina del Campidoglio non è più un’ipotesi pretestuosa ed azzardata, anzi si trasforma nella sfida urbi et orbi che rianima una delle figure più emblematiche e controverse del grillismo. Viene meno la speranza, a questo punto, di un accordo funzionale al radicamento sul territorio dell’alleanza nazionale di governo.
Ora è tutto più chiaro, in generale per la pubblica opinione, in particolare per Calenda. L’ex ministro ha rotto gli indugi e reitera da giorni un messaggio a tinte forti, senza sfumature: non è disponibile a fare passi indietro, nemmeno nel caso di una improbabile discesa in campo del segretario Dem, Nicola Zingaretti. Il filo si è spezzato. Di conseguenza le primarie, evocate a più riprese come ineludibile strumento di selezione del candidato alla massima carica cittadina, appaiono inadatte a ricomporre un quadro d’insieme, del resto immaginando di doverlo ricomporre tutto a sinistra, pur con qualche esangue concessione di cortesia al centro. Dunque un intero puzzle, fatto di equilibrismi e sfrontatezza, è andato in frantumi.
Se fino a ieri a scandire il tempo era il Partito democratico, interessato a ritardare il chiarimento e di riflesso a logorare il “solitario” Calenda, da oggi si sono invertiti i ruoli e il rischio logoramento pesa più che mai sugli uomini del Nazareno. Non è Calenda a dover accelerare, visto che ormai è in piena campagna elettorale. Il suo problema è solo quello di correggere il profilo di algido modernizzatore, senza pathos sociale, che molti vorrebbero attribuirgli o che la personale indole anticonformista gli addossa fatalmente.
Invece il liberal-socialista, come ama egli stesso definirsi, può essere a Roma il costruttore di una politica al tempo stesso dell’innovazione e della solidarietà, aprendosi al contributo di “mondi vitali” che avvertono in qualche misura, anche sulla scia della parola evangelizzatrice di Papa Francesco, il valore del vivere per gli altri. Il valore, cioè, di una politica che rompa l’assedio degli egoismi e dell’indifferenza, sforzandosi semmai di rendere più umana la città, ovvero più accogliente e stimolante, più adeguata a un progetto democratico che miri a restaurare l’ambizione di una Roma universale.
Si tratta di sperimentare, specie sul terreno amministrativo, una nuova convergenza di tipo liberal-popolare, capace di attrarre consensi in una logica centripeta. Ci sono tutte le condizioni. D’altronde, andando a pescare nella storia del Novecento, non era forse il giovane liberale intransigente, Piero Gobetti, a menzionare con simpatia e ammirazione il popolarismo sturziano quale esempio di originale e interessante “riformismo messianico”? E Gobetti, come è noto, rappresenta per il leader di Azione un preciso riferimento ideale. Questa convergenza, più che auspicabile ai fini della riarticolazione del quadro politico nazionale, costituisce la vera scommessa sul tavolo del cambiamento che qualifica e determina la candidatura di Calenda. La sua forza, a ben vedere, sta proprio nella sua originalità: in sé possiede convenientemente i requisiti di autonomia e indipendenza.
Non è poco.