A Mugnano, antico borgo di Bomarzo al confine con la Bassa Umbria, ho visto alla prova la volontà di resistenza e di speranza di quel che residua vitalmente dell’area popolare del Pd. Nel corso di formazione della Scuola Aldo Moro, durato tre giorni e largamente partecipato da giovani di varia provenienza, il filo conduttore delle relazioni e dei dibattiti è stato il confronto diretto o indiretto sul futuro del riformismo, specie di quello ispirato ai valori del popolarismo. Oserei dire, senza cattiveria, che lo è stato a livello preterintenzionale, quasi per istinto, in un abbraccio corale con l’inquietudine di chi resta temendo di dover partire o di chi parte sapendo di dover restare.

È merito di Fioroni, amico d’impareggiabile testardaggine, non insignito di titoli od onori e non facente parte di visibili organigrammi, l’aver tenuto a battesimo il concentrato di ribelle amore per l’identità di un “piccolo mondo antico”: il mondo dei democratici irriducibili alla cancellazione di un avamposto identitario nel partito erede di Margherita e Ds. Tanto più, del resto, che una siffatta posizione sentimentale avverte più da presso, a confronto dell’aliena insensibilità di fondo del Pd, l’effetto scisma di Matteo Renzi.

Oggi si fa più complicato e gravoso – Fioroni lo sa bene – un posizionamento che appare pur sempre necessario in quanto funzionale al dialogo tra progressisti e moderati. Come può sorreggersi, d’ora in avanti, questo dialogo? La scissione renziana, spezzando la tradizionale narrazione politologica, s’incarica di confutare l’egemonia della sinistra nel campo della modernità. Al tempo stesso, la crisi del Pd rimane in agenda, ben lontana dall’essere scongiurata per effetto del ritorno al governo o del congedo dal renzismo. L’ostentata sicurezza non rimuove il dato che i sondaggi registrano: comunque la si giri, l’operazione di Italia Vive già ora, a pochi giorni dall’annuncio, toglie voti al Pd e promette di toglierne ancora di più in futuro.

Il compito di Zingaretti è fuoriuscire in fretta dal connubio di iattanza e sgomento, per riuscire a fronteggiare il pericolo del “cambiamento climatico” che incombe sul riformismo democratico. La costituente delle idee diventa un congresso mascherato. Ora, parlare di vocazione maggioritaria non legittima automaticamente la reinvenzione di una soggettività plurale, accogliente e generosa; al contrario, suscita il sospetto che si voglia bloccare il ritorno al proporzionale e imporre un nuovo bipolarismo, ridisegnando perciò la rappresentanza che poggia o può poggiare sullo spazio elettorale attualmente occupato dalla parziale e finora configgente sovrapposizione di Pd e M5S. Per questa strada, sotto i medesimi vessilli della vocazione maggioritaria, verrebbe a configurarsi – non più guardando al centro, ma decisamente a sinistra – la costruzione di una nuova forza politica.

All’orizzonte prende forma questa suggestione. Ciò provocherebbe un ulteriore giro di vite in funzione di una presenza cattolica a carattere pre-politico, adibita cioè a presidiare le tematiche della solidarietà, del disagio sociale, della giustizia e dell’amore. Per il resto, poco o nulla si conserverebbe della identità politica dei popolari. Altro che ospiti paganti e non graditi, come Fioroni si ostina a motteggiare, inascoltato e solitario. Qui siamo al cospetto di un’insidia oggettiva. Il drappello popolare non ha la forza di correggere la spinta che promana dal suggestivo e tuttavia arrischiato “compromesso storico” tra populismo e riformismo. Servirebbe una ristrutturazione politica ed organizzativa in grado di accompagnare la trasformazione del Pd in piattaforma programmatica ed elettorale delle diverse culture riformatrici – neo-socialista, demo-liberale, verde e cattolico democratica. Ma ciò sarebbe, in altri termini, la presa d’atto del venir meno di quanto nell’ottobre del 2006 fu tratteggiato dai tre relatori del convegno di Orvieto (Pietro Scoppola, Roberto Gualtieri e Salvatore Vassallo), ossia l’avvio di un processo di ibridazione dei distinti filoni del riformismo – poi trasvalutato in chiave neo-ulivista da Veltroni nel discorso del Lingotto, nel 2007, all’atto della presentazione della sua candidatura alla guida del nascente Pd.

Non è affatto concepibile che lo scisma di Renzi passi come acqua fresca sulla pelle dei Democratici. E neppure si può immaginare la ripresa dei popolari lungo l’asse di una pragmatica rinegoziazione della loro presenza nel partito. Solo se il Pd cambia, anche in virtù di una sana critica che muova dalla preoccupazione per lo svuotamento della scommessa riguardante il “partito unico dei riformisti”; solo se emerge una visione più matura, per la quale si riconsacra il valore delle culture fondative e si ripensa la forma politico-organizzativa del partito; solo, dunque, se la risposta alla scissione è capace di drenare le ragioni da cui essa prende origine, allora gli spazi si apriranno nuovamente per dare a tutti il modo di riprendere, con vigoria ed entusiasmo, il cammino intrapreso a suo tempo.

Non so quanto debba pesare la fiducia. Certamente l’occasione di Mugnano rivela l’ammontare di queste ed altre considerazioni, tutte sul filo di un instabile equilibrio, capace di reggere fintantoché l’emergenza consista nell’opporre una prima resistenza al sovranismo di Salvini. In ogni caso l’equilibrio muterà e nuove esigenze si presenteranno. Al momento prevale la raffigurazione in chiaroscuro dell’inatteso sommovimento del quadro politico. Sarà però difficile, in prospettiva, eludere la forza e la chiarezza della “questione del centro”. Ai popolari si chiederà pertanto di essere portatori di un codice di riproduzione o meglio di aggiornamento di una politica che per lungo tempo ha nutrito il centro – in verità, secondo De Gasperi, del centro che guarda a sinistra – di valori, speranze e giuste ambizioni. Bisogna guardare avanti e in piena coscienza, dove le circostanze ne dettino le condizioni di agibilità, combattere la buona battaglia nel solco di una grande e ancora viva lezione di democrazia.