Altrove sarebbe diverso. Non coglieremmo questo moto gentile di patriottismo locale, che riempie alla vigilia i contorni e le forme dell’evento, solo in parte cittadino. Altrove, in un convegno dedicato a chi fu sindaco nei remoti anni ‘80 del secolo scorso, una pigra e distratta ritualità avrebbe  ingabbiato ogni slancio di interesse o commozione, scivolando nel protocollare

Altrove, certo, ma non a Brescia. L’appuntamento è a Palazzo Loggia, in una giornata che doveva essere d’inizio giugno, ma che presenta all’improvviso, dopo tanto ritardo, la calura dell’estate già matura, quando i bresciani – si dice – ricercano il conforto del monte Maddalena. Sulla piazza, prima di salire lo scalone del Palazzo di città, si coglie la viva sensazione di angoscia e di vergogna, che rimonta a 45 anni di distanza da una strage ancora evocativa di un’Italia ferita, consegnata alla violenza di menti occulte e manovalanza ambigua, contro le istituzioni democratiche; strage che negli annali del terrorismo è il passaggio intermedio di una lucida strategia di destabilizzazione, iniziata nel 1969 a piazza Fontana, nel centro di Milano, e culminata nel 1978 a Roma, in via Fani.

L’invito segna le ore 18.00 del 4 giugno. Prima di tutto, alla presenza del sindaco, i relatori s’incontrano in Sala Giunta per definire gli ultimi dettagli. Il convegno richiama innanzi tutto l’attenzione sulla storia urbana più recente, in un paesaggio intellettuale e politico che suscita rispetto e ammirazione, includendo un Papa indimenticabile (Giovan Battista Montini), grandi famiglie di professionisti (si pensi ai Bazoli e agli Onofri), politici di rango alla Martinazzoli e Salvi, sindaci straordinari come Boni e Trebeschi, fior d’imprenditori e grandi servitori delle istituzioni (anche Guido Carli era nato qui). Liberali e cattolici, a cavallo tra ‘800 e ‘900, hanno forgiato una comunità stratificata ed omogenea, al tempo stesso, che conserva in qualche modo gli anticorpi per  resistere alla tentazione della Lega salviniana.

Nel Salone Vanvitelliano, affollato come nelle grandi occasioni pubbliche, la presentazione del libro (Pietro Padula. La buona politica, a cura di Ennio Pasinetti e Franco Franzoni, Editrice Morcelliana) segue un ritmo ordinato e intenso. Tino Bino, coordinatore dei lavori, legge in apertura il messaggio del Presidente della Repubblica. Non c’è retorica nelle frasi ponderate di Mattarella: Padula, politico preparato e amministratore locale di riconosciute qualità, è stato un “edificatore della Repubblica delle autonomie”. E nel libro, che raccoglie le più varie testimonianze tra cui quelle di De Mita, Bodrato, Bassetti) colpisce appunto la delicata e partecipe scrittura del Capo dello Stato.

Più volte parlamentare, uomo di governo, dirigente di partito, Padula aveva un rapporto molto stretto con la vita amministrativa locale. Guarda caso, andando indietro nelle vicende familiari, si scopre un legame con gli Sturzo di Caltagirone. Dunque, a ricalco della lezione del popolarismo, il municipio rappresenta per il giovane, ma poi anche per il maturo amministratore locale, il vero banco di prova dell’impegno pubblico.

Sul punto ha insistito particolarmente Lorenzo Dellai, sindaco di Trento all’epoca dell’Anci a guida Padula. Nella circostanza vien fuori, proseguendo nel dibattito, che proprio Dellai era il candidato in pectore che Padula immaginava  potesse raccogliere il testimone, nel congresso del 1995, alla fine di un mandato che egli aveva esercitato con autorevolezza ed equilibrio, affrontando le vicende più tormentate della stagione di Tangentopoli.

Quindi Riccardo Marchioro, altro relatore che può vantare di sicuro un legame profondo con Padula, aggiunge nel ricordo dell’uomo quel tratto di umanità e spessore morale che faceva dell’amicizia una categoria politica inserita a pieno titolo nell’agire pratico. Se per altri era la tenacia la qualità più eminente di Padula, per Marchioro lo era invece la lealtà, una virtù impossibile da coltivare al di fuori di un’autentica concezione dell’amicizia. Ciò dava al ruolo di Padula nella vita di partito quella caratura di autorevolezza che discendeva dal visibile connubio di riflessione e slancio operativo, grazie specialmente alla “cultura della mediazione” assorbita negli anni di formazione nel Movimento giovanile della Dc.

In effetti, pensiero e azione costituivano nel loro intreccio fecondo l’anima della politica della terza generazione democristiana. “Da esponente della sinistra di Base, ha sottolineato Lucio D’Ubaldo, egli ragionava sulla politica e ne spiegava le tensioni, i condizionamenti, le scelte”. Andrebbe perciò ricostruita, con grande cura, la fisionomia culturale di questa corrente dei giovani progressisti post-dossettiani. Con essi, nutriti al metodo del confronto a tutto campo e alla rigorosa gestazione e verifica del quadro di programma, il moderno politico di “tipo democristiano” avrebbe assunto i lineamenti che poi la crisi della Prima Repubblica si è purtroppo incaricata di rimuovere. “Dai Basisti, ha precisato dunque D’Ubaldo, potevi attenderti quella sorta di costante illustrazione che rendeva intellegibile la lotta politica. A differenza del modo di fare odierno, con i leader impegnati solo a consacrare il loro sconfinato egocentrismo. Dove prima esisteva il dogma della coerenza, oggi domina l’arbitrio del movimentismo, senza regole. Anzi, con l’unica regola del potere per il potere”.

Alla fine della tavola rotonda è tornato al centro il discorso sulla città. Il sindaco, nel tirare le somme, ha fatto leva sul contributo offerto da Padula, su cui vale la pena interrogarsi ancora. È lievemente commosso, Del Bono. “Brescia, ci diceva Pietro, non deve chiudersi in se stessa. Anche la provincia, in questa visione ambiziosa, aveva e ha un perimetro più ampio di quello giuridico-amministrativo. Va oltre, cioè, l’asse geografico tra Ponte di Legno e Pontevico. Ecco, siamo qui, a dieci anni dalla scomparsa, a commemorare il sindaco che dirigeva lo sguardo verso l’orizzonte di una città – la sua, la nostra – che doveva pensarsi come effettiva e concreta realtà metropolitana”. Ultimo interprete di quella continuità dinamica che appartiene al municipalismo cattolico bresciano, Del Bono ha fissato da par suo un concetto fondamentale per  un’accurata ricognizione dell’esperienza del suo predecessore: per lui un pensiero grato, se non anche affettuoso, avendolo conosciuto e apprezzato nel cimento della lotta amministrativa, quando un giovane consigliere comunale, muovendo i primi passi, avvertiva per intero la necessità di mostrarsi adeguato a condividere con i maggiori protagonisti del tempo il ruolo di rappresentante delle istanze civiche”.

Di questo dibattito rimarrà, infine, il richiamo alla centralità di questioni vecchie e nuove che interessano le battaglie per l’autonomia degli enti locali. “L’Anci di Padula, nelle conclusioni di Del Bono, non era il sindacato dei Primi cittadini. Non era dunque, nella versione più angusta, una corporazione tra le tante. Era piuttosto il luogo politico che raccoglieva e sedimentava le  dinamiche di un autonomismo pensato e vissuto come fattore originario, dotato di pari dignità rispetto agli altri livelli di governo, della “forma” costituzionale dell’ordinamento repubblicano. Un’Anci politica, quella di Padula, che dobbiamo rifare nostra, aggiornando ovviamente le modalità di interpretazione”. Dietro il velo del linguaggio aggraziato si coglie il disagio che cova, specialmente in un’ottica lombarda, nell’ambito dell’associazionismo comunale. A Palazzo Loggia ha fatto capolino un monito garbato, il cui valore assomiglia a quello di una “Brescit”.

P.S. Erano presenti in sala la moglie Luigina, le figlie e altri parenti. Con lo stile, sobrio, che piaceva a Pietro Padula.