Con l’imperscrutabile sorriso del presidente Xi Jinping e lo strabiliante annuncio di una fantomatica vittoria dell’Italia sulla Cina, proclamato dal ridente vice premier Di Maio, si è concluso il più colossale accordo commerciale mai finora firmato dal nostro Paese.
In realtà, la gaffe del leader M5S, dovuta forse ad una cattiva interpretazione dello slogan win-win coniato da Pechino per sopire le preoccupazioni dei partner occidentali e della riluttante Europa in particolare, è piuttosto imbarazzante se si considera che dall’avvento della Repubblica Popolare di Cina in poi le trattative di Pechino sono sempre state improntate sul “reciproco interesse”, win-win appunto, che si spera verrà attuato anche in questi accordi del valore di oltre due miliardi e mezzo di Euro.
Nel 1970, l’Italia fu il primo Paese NATO ad allacciare i rapporti diplomatici con la Cina Popolare e, in questi giorni, è stato il primo Paese del G7 a firmare il documento della “Belt and road initiative” (Bri), meglio noto come “La nuova Via della Seta”, il grandioso programma infrastrutturale cinese che dall’Asia si estende all’Africa e all’Europa, coinvolgendo oltre 60 paesi nel suo gigantesco abbraccio.
Con la realizzazione della Bri, la Cina non è più soltanto il “Paese di mezzo” (Zhong-guo, Cina) dell’Asia, ma anche il centro strategico di tutta l’immensa fascia terrestre e marittima coinvolta nel progetto.
Russia – Mongolia, Bangladesh, Birmania, Indocina, Pakistan, Asia centrale e occidentale fino all’Europa, Kazakistan – Russia, oltre alle rotte marittime verso gli oceani Pacifico e Artico, costituiscono l’immensa Via della Seta che converge sulla Cina e dalla Cina si irradia.
Il progetto prevede nuovi posti di lavoro, nuovi scambi, nuovi sviluppi commerciali, con evidenti vantaggi per tutti i paesi coinvolti e che il presidente Xi Jin Ping, impegnato ad avviare la Bri fin dal 2013, non ha mancato di evidenziare nel corso di tutti i colloqui ufficiali tenuti a Roma.
Alla pressante necessità della Cina di smaltire l’eccesso delle sue produzioni e di far fruttare il suo immenso capitale monetario, corrisponde la crisi economica in cui versa gran parte dell’Europa e l’Italia in particolare, anche se con ogni probabilità non saremo in grado di importare tutto quello che Pechino non riesce a smaltire in casa propria.
Ancora non sono chiare le condizioni poste dal governo di Pechino ai paesi firmatari della Bri e, per quanto ci riguarda, all’Italia in particolare, ma la decisa opposizione di Washington al progetto cinese, che solo l’abilità diplomatica e la grande apertura al dialogo del Presidente Mattarella sono riuscite a placare, lascia temere qualche atto di rivalsa da parte del presidente Trump, contrario all’accordo e notoriamente non troppo incline alla benevolenza nei confronti dei suoi recalcitranti alleati.
Due miliardi e mezzo di Euro non sono una cifra trascurabile ed è prevedibile che l’Italia dovrà prepararsi a dure fatiche per onorare gli impegni assunti che, comunque gli accordi vengano considerati, non costituiscono certo una nostra vittoria.
Il sorriso accattivante di Xi Jinping e i mutui scambi di cortesie, non debbono trarre in inganno. I cinesi sono spietati nel difendere i loro interessi e la debolezza economica dell’Italia, con un debito pubblico sull’orlo dell’abisso, non fa che aggravare la nostra posizione .
Gli avvertimenti non sono mancati, sia da parte del Fondo Monetario Internazionale che ha citato il caso del Montenegro e delle Maldive, arrivati al collasso economico a causa di uno smisurato aumento del debito pubblico dovuto alla Bri, sia da parte degli ambasciatori dell’UE a Pechino, che hanno sottolineato l’estrema difficoltà delle aziende europee nei tentativi di penetrare il mercato cinese e, al contempo, la consumata abilità di Pechino nello sfruttare a proprio vantaggio certe ambiguità della lingua cinese e non facilmente traducibili, proditoriamente inserite nei documenti ufficiali originali.
Giustamente è stato rilevato come la proposta della Bri non si limiti ai rapporti commerciali, ma rivesta un più ampio aspetto politico che riguarda direttamente anche il nostro Paese. Formalmente, le intese tra l’Italia e la Cina sono state definite strettamente economiche e spaziano dal paternariato strategico tra la Cassa Depositi e Prestiti e il Bank of China Limited a quello tra l’ENI e il Bank of China Limited, al Piano di Azione sulla collaborazione sanitaria, alla “restituzione di 796 reperti archeologici appartenenti al patrimonio culturale cinese”, al “protocollo sui requisiti sanitari per l’esportazione di seme bovino dall’Italia alla Cina”, fino al memorandum di intesa tra la RAI e il China Media Group e l’accordo tra le agenzie giornalistiche ANSA e XINHUA.
Tra intese, memoranda, contratti, patti, protocolli, sono state apposte 28 firme su altrettanti accordi. Ma come è da intendere “l’accordo di cooperazione tra l’Autorità di sistema portuale del Mare Adriatico Orientale-Porti di Trieste e Monfalcone e la China Communications Construction Company”? A quali obblighi dobbiamo sottostare per onorare l’Accordo di cooperazione tra il Commissario Straordinario per la Ricostruzione di Genova, l’Autorità di Sistema Portuale del Mar Ligure Occidentale e, ancora, la China Communications Construction Company? Quali finalità politiche si prospetta la Cina in un programma di aiuti che coinvolge i porti più nevralgici per i nostri commerci e quale il prezzo che dovremo pagare?
La Cina di noi conosce tutto, perfino il nome degli amanti e le abitudini dei più discreti membri del nostro Parlamento. Noi della Cina sappiamo soltanto quello che i cinesi vogliono si sappia o, raramente, quello che ci arriva da qualche sporadica notizia sfuggita alle strettissime maglie del controllo governativo. Non disponiamo di dati certi e controllabili, non sappiamo quanto il deserto del Gobi abbia ingoiato delle loro terre coltivabili né fin dove arrivi la miseria e la fame di una crescente fascia della popolazione.
La lotta è impari, speriamo di uscirne con le ossa non troppo rotte.