La consegna del silenzio che di fatto vige, almeno nella Chiesa ufficiale, sugli aspetti teologici, culturali, ecclesiologici e pastorali dello scritto di Benedetto XVI per una rivista per il clero tedesco, Klerusblatt, non impedisce di valutarne i risvolti politici. Non tanto sul piano degli equilibri intraecclesiali, che lascio ai colleghi vaticanisti, quanto sul profilo pubblico della Chiesa cattolica in Italia.
Nel testo del Papa emerito emerge nitida la critica a una Chiesa che sembra apparire desiderosa di uniformarsi ai canoni del politicamente corretto, a rischio di sembrare diluita nelle pur importanti cause di questo, come l’ecologismo, l’europeismo o l’attenzione verso il dramma dei migranti. Anche nel fare doverosamente pulizia al proprio interno da crimini orrendi si dà più l’impressione, scrive papa Ratzinger, di «considerare la Chiesa addirittura come qualcosa di malriuscito che dobbiamo decisamente prendere in mano noi stessi e formare in modo nuovo». Ma l’illusione di fare «una Chiesa migliore creata da noi stessi», osserva il papa tedesco, riduce la Chiesa ad esser «in gran parte vista solo come una specie di apparato politico» e «una Chiesa fatta da noi non può rappresentare alcuna speranza».
Questo mi sembra il passaggio centrale del saggio di papa Ratzinger nella prospettiva di una sua lettura laica e storico-politica. Vi si scorge la consapevolezza (profetica?) dell’enorme rischio cui la Chiesa cattolica va incontro, in conseguenza del suo apparire ai cittadini prevalentemente come organizzazione politica e umanitaria.
Per valutare tale rischio in tutta la sua possibile portata occorre la capacità di guardare oltre il muro dell’illusione nell’ingiustificata speranza che il pilota automatico delle regole europee e la guida impolitica del Paese egemone, la Germania riunificata, possano dare una risposta alla crisi che dilaga in Europa.
Non lo possono fare poiché di tale crisi sono la causa principale. Di quella crisi che, come ha affermato Chiara Tintori (curatrice di un libro-intervista a padre Bartolomeo Sorge, Perché il populismo fa male al popolo), «ha fatto la sua comparsa nel 2008, provocando una contrazione produttiva e delle opportunità di lavoro, portando con sé un aumento costante delle disuguaglianze».
Molte e diverse voci ormai – da papa Francesco a economisti come Paul De Grauwe, giornalisti come Federico Rampini e persino esponenti dell’alta finanza come Carlo De Benedetti – dimostrano coscienza del fatto che l’attuale ciclo economico deflazionista è giunto al capolinea. Alcuni fra loro ci avvertono che l’attuale sistema fondato sul primato della moneta sulla persona umana e sulla democrazia non risulta più sostenibile. Restando all’Italia, ciò che si prospetta per i prossimi anni, se si proseguirà, come tutto lascia intendere – anche il DEF da poco varato – sulla linea dell’austerità, che somma al disagio dei poveri quello della classe media che precipita, è quello che l’economista Nino Galloni ha definito una “prospettiva libica”, di diffuso caos sociale, di guerra per bande e anarchia dilagante, essendo il popolo italiano, a differenza di quello francese, incapace di ribellarsi per un’ideale di giustizia universale, ma piuttosto incline a perseguire il proprio “particulare”.
In un tale scenario che ci si augura di non dover mai vedere, ma che purtroppo rientra tra gli sviluppi più probabili, a causa di lunghi anni di politiche tragicamente miopi e sbagliate, il popolo inferocito da una crisi economica di cui non è colpevole ma vittima, finirebbe per cercare i suoi capri espiatori. E siccome già nel presente, da parte dei veri responsabili della crisi si possono osservare delle manovre per addossare alla Chiesa la responsabilità di quanto sta succedendo, una Chiesa percepita come un tutt’uno con l’establishment politico–economico–mediatico (anche se così non è nei fatti, almeno per quei tanti cristiani che stanno vicino agli ultimi e costituiscono il popolo ancor più dimenticato dei penultimi), finirebbe per esporsi facilmente come bersaglio dell’enorme scontento popolare. Una Chiesa che appare soprattutto come un apparato politico rischia di divenire bersaglio di nuove persecuzioni.
«La Chiesa di oggi è come non mai una Chiesa di martiri e così testimone del Dio vivente». Per le cronache attuali questa affermazione di Benedetto XVI sembra valere principalmente per dei contesti extraeuropei. Ma nel giro di pochi anni rischia di potersi riferire anche all’Italia, e all’Europa, e le fiamme che hanno devastato Notre Dame, se non vi sarà un deciso e netto cambio di direzione nelle politiche economiche e monetarie, potrebbero ben presto trasformarsi in un simbolo che prefigura ciò che la Chiesa cattolica potrebbe dover patire nell’intera Europa, incendiata e dissestata dall’austerità.