Israele tra pace e guerra: dove può arrivare Netanyahu?

Può emergere infine che la convinzione del governo israeliano sia che lo sbocco inevitabile della crisi attuale sia un confronto duro (definiamolo così, per ora) con il nemico più acerrimo, l’Iran degli ayatollah.

È opinione comune che le ragioni principali delle scelte di Netanyahu, tutte improntate ad una linea di totale chiusura rispetto ad ogni ipotesi negoziale con Hamas, siano dettate dalla composizione della sua radicale maggioranza politica di estrema destra e ancor più dalla consapevolezza che la sua carriera politica finirebbe nel momento stesso nel quale dovesse lasciare la premiership (e in contemporanea riprenderebbero quota tutti i suoi conti aperti con la Magistratura israeliana), che ovviamente non intende cedere a maggior ragione visto il conflitto in corso. Sono senz’altro osservazioni corrette, ma forse non sufficiente per comprendere sino in fondo la scelta di allargare lo scontro anche in Cisgiordania, come gli ultimi eventi paiono dimostrare,

Il fatto è che fra pochi mesi gli Stati Uniti avranno una nuova o un vecchio-nuovo presidente nel pieno della sua forza politica poiché appena eletta/o. E quindi – valutata la debolezza attuale di Biden, del quale infatti non considera gli appelli, né le minacce –Netanyahu ritiene conveniente, per sé e per Israele, occupare quanto più spazio territoriale possibile a scapito dei palestinesi nelle ormai non molte settimane che ci separano dalle elezioni americane.

Ovviamente anch’egli ritiene che avere Harris o Trump come interlocutore non sia la stessa cosa. Ed è probabile che auspichi un successo dell’ex presidente, col quale per la verità i rapporti non sono cordialissimi ma quanto meno il campo di riferimento, quello della Destra, è il medesimo. Ma al contempo il premier israeliano, politico di lunghissimo corso, è consapevole che prima o poi ad un qualche compromesso occorrerà arrivare: se non per la pressione interna, almeno per quella del potente alleato d’oltreoceano, desideroso di tornare a concentrare i propri sforzi nel confronto con la Cina e dunque nel Pacifico diminuendo una presenza mediterranea che la crisi innestata il 7 ottobre ha reso nuovamente significativa e assai onerosa. Inoltre, sia Trump (che ne fu l’artefice) sia Harris lavoreranno per un ampliamento all’Arabia Saudita degli Accordi di Abramo: ma ciò condurrebbe a riaprire il discorso – oggi chiuso da Gerusalemme – relativo alla nascita di uno Stato palestinese, con tutti i relativi problemi annessi.

Insomma, un insieme di considerazioni portano Netanyahu alla scelta cui si sta assistendo: prosecuzione dell’assedio di Gaza; rafforzamento ulteriore del controllo territoriale in Cisgiordania, sia tramite i coloni sia con azioni di polizia; presidio offensivo del confine nord, per tenere lontano Hezbollah minacciando una invasione del Libano meridionale. E poter poi affrontare la Casa Bianca partendo da una situazione sul campo la più allargata e favorevole possibile.

Questa è un’ipotesi, fondata e realistica. Ve ne è però anche un’altra, molto più insidiosa. E cioè che la convinzione del governo israeliano – e non solo del governo – sia che lo sbocco inevitabile della crisi attuale sia un confronto duro (definiamolo così, per ora) con il nemico più acerrimo, l’Iran degli ayatollah. Nel caso, quanto più si indeboliscono, sin da ora, i suoi alleati terroristi sul terreno prossimo a Israele tanto meglio si potrà affrontare Teheran, quando sarà. Per alcuni, a Gerusalemme e Tel Aviv, molto presto.