La banalità del male alle pendici del Vesuvio.

Nel paese di San Sebastiano un litigio si trasforma in tragedia. Santo è vittima di una violenza insensata: aveva provato a stemperare la lite tra i suoi coetanei e ci ha rimesso la vita.

Questa volta il Vesuvio l’ha fatto grossa ed ha eruttato portando in superfice il peggio che c’è nell’uomo. Ha illuminato una scena dove la banalità del gesto esita esso stesso a riconoscersi. Banale è ciò che appartiene a tutti. Con un bando si annuncia al popolo una notizia che lascia sgomenti per la sua insensatezza. Alle pendici del vulcano, in quel del paese di San Sebastiano, un inavvertito pestone su una scarpa, ha dato luogo a un litigio. Il ragazzo che si è fatto da piacere per stemperare la stupida la lite tra i suoi coetanei ci ha rimesso la vita con un colpo di pistola in petto.

Non è la prima volta che accade e non sarà l’ultima. Questa volta c’è però una “esse” che sibila e ha portato la morte senza che resti ancora silenziosa e trionfale al suolo. Santo è il nome del ragazzo ucciso, appena 19 anni, lavoratore e portiere di una Società di calcio dal nome “Asd Micri Calcio di Pomigliano d’Arco”. Al contrario, non sarà riducibile ad un episodio da minimizzare, da ridurre in pillole e da mettere subito nel dimenticatoio. Ha infatti ha trovato subito posto in quell’umano che ancora ci resta.

Tutto è accaduto a causa di una scarsa imbrattata, che non è servita in questo caso da tasca di pelle dove poter accudire e custodire intatto il proprio cuore. Si è “cloacato” un accessorio del vestiario, un qualcosa di marginale rispetto al tutto, andando fuori margine con una insulsa reazione di annientamento per rabbia.

Santo è morto tra le braccia degli amici. Di lui resta il trofeo di una sua scarpa che varrà come reliquia per chi vorrà ricordarlo. Sarebbe bene che quella comunità e il nostro paese si sporcasse le mani per dare frutto a questo delitto. Sterile perdersi in dibattiti di sociologia e quanti altri ne matureranno per mettersi la coscienza a posto.

San Sebastiano, secondo il nome, colui che è dotato di signorilità, ha avuto per chi non lo sapesse una strana sorte. Diocleziano ne dispose il martirio legandolo ad un albero di alloro e trafitto da frecce. Fu lasciato lì dai soldati che lo credettero cadavere lasciandolo in pasto agli animali selvatici. Evidentemente la faccenda non poteva concludersi con l’ovvietà dell’accaduto.

San Sebastiano, invece, solo moribondo, fu salvato da Irene che lo rimise in piedi prestandogli ogni cura per rimetterlo in forma. Fu tutto inutile perché il redivivo, appena in sesto, si ripresentò cocciutamente davanti al suo spietato aguzzino Imperatore per riconfermare la sua fede.  Questa volta fu fustigato fino a morte certa e gettato nella Cloaca Massima.

Sembra sempre quello il posto da fogna dove si va a finire quando si tenta a far bene da certe parti e si strusciano le scarpe di qualcuno.

Occorre avere simile caparbietà perché tutta la brava gente della nostra società per fare in modo che non si arrenda e proclami una inversione del modo di intendere la vita e la sua estinzione. Di come girino armi in mano ai ragazzi e alla incapacità di controllo delle famiglie e dell’inadeguato monitoraggio della gioventù si spenderanno fiumi di inchiostro.

C’è una lezione spietata che potrebbe impartirsi a chi ha sbagliato e forse anche a chi procede sempre lungo un border line tra indifferenza e male. Far visitare loro frequentemente gli obitori, fargli osservare la lenta macabra decomposizione degli organi e il loro disgustoso odore, far loro toccare il freddo dei corpi inerti e osservare la fauna cadaverica che si appresta alla banchettata. Una lezione da soli e non in gita scolastica a contatto di esperti a spiegare la faccenda.

Dovrebbero restare a contatto materiale con la morte per apprendere che da lì non c’è altra pagina da girare ma è l’ultima del libro che hanno drammaticamente scritto, credendo che poi segua comunque un altro dopo, che abbiano compiuto un fatto del giorno ma non definitivo. Dovrebbero avvertire materialmente il ribrezzo di carni in disfacimento, l’orrore del loro deperimento, la putrefazione che fa il suo corso, il terrore per quella compagnia da cui non ci si può adesso sottrarre.

Dovrebbero provare cosa vuol dire essere stesi per qualche secondo in una bara mentre se ne chiude la cassa, dovrebbero insomma mettere le mani nella morte che agisce e che non agiscono. All’assassino, reo confesso, potrebbe far bene essere isolato, costringerlo al cospetto del povero Santo, la vittima stesa su di un tavolo, per il tempo che occorre affinché la morte possegga il pensiero dell’autore del delitto. Per lui e per altri ci vorrebbero forse lezioni di morte.