Tratto dalla pagine dell’Osservatore Romano a firma di Andrea Monda
Nella sede della Fondazione Leonardo da lui presieduta, incontriamo Luciano Violante che interviene nel dibattito cominciato dal sociologo Giuseppe De Rita il 21 maggio su queste pagine con una riflessione che rinviava all’esperienza del Medioevo e all’Italia dei Comuni e alla necessità di una doppia autorità, civile e spirituale; una che garantisca la sicurezza e l’altra che offra un senso, un orizzonte di senso.
Oggi la sicurezza è un grande tema che muove anche le scelte elettorali. Ma di quale sicurezza stiamo parlando?
La sicurezza oggi non è un obiettivo del governo; è un tema della propaganda e della polemica nella politica e nei suoi satelliti. Serve ad acquisire o a consolidare consenso, non a individuare politiche adeguate attraverso il confronto tra posizioni diverse. Il meccanismo sovranista si alimenta quotidianamente della proposizione del nemico. Se mi è permesso in questa sede, direi che ha il complesso di San Giorgio: o è a cavallo con la lancia in resta contro un drago minaccioso ai suoi piedi, oppure non lo riconosce nessuno. Si tratta di qualcosa di molto diverso dalla politica della sicurezza di cui parla De Rita. Il cittadino ha bisogno di sicurezza sul lavoro, nella sanità, nelle condizioni ambientali. Ma queste sicurezze non le riceve più da nessuno; questo silenzio per un verso alimenta il rancore, per altro verso spinge a dare consenso a chi dona sogni con promesse mirabolanti e con la contemporanea indicazione di colpevoli contro i quali scaricare il rancore. La società è attraversata dalla colpevolizzazione dell’altro. Finché c’era il bipolarismo internazionale, ciascuno dei due sistemi dava il meglio di sé, perché doveva competere con l’avversario, doveva dimostrarsi più credibile dell’altro. I sovietici mandavano Gagarin in giro per lo spazio e gli Usa facevano scendere Armstrong sulla Luna. In questo sistema i due soggetti che competevano, garantivano la sicurezza intesa in senso globale, e allo stesso tempo davano un senso alla vita. Era una singolare cooperazione a vantaggio dell’umanità. In Occidente la fede cristiana per un verso e il capitalismo per un altro verso davano un senso, una speranza alla vita. La stessa funzione avevano i partiti comunisti nell’orbita sovietica e in molti paesi occidentali. Non ignoro il Cile da una parte e l’Ungheria dall’altra. C’era del male, ma anche del bene. Poi è scattato il corto circuito. Ho l’impressione che l’Occidente non sia stato capace, nel suo complesso, di gestire la globalizzazione, che è stato il tempo del dopo-guerra fredda. Hanno fallito sia l’ala liberista, che ha ridotto il popolo a una massa di consumatori, sia quella socialista che si è illusa di poter garantire per il popolo mentre si sedeva su uno strapuntino del banchetto neoliberista.
Il fallimento di queste due ipotesi ha portato a una rottura orizzontale, non più per appartenenze a grandi schieramenti valoriali, che creavano separazioni verticali ma tenevano uniti società, corpi intermedi e politica. Oggi si manifesta una frattura orizzontale tra una società rancorosa e una società intimidita. I rancorosi si considerano danneggiati dalle élites e le élites sinora non si dimostrano idonee ad affrontare il rischio di una narrazione che spieghi la verità. I sovranismi sono l’espressione di questo; cosa dicono infatti se non “noi stiamo, chiusi, tra noi, perché gli altri sono gli avversari, i nemici”. Gli altri non hanno avuto la forza di opporre argomenti strategici, ma solo argomenti tattici. In questo modo sono venuti meno i tre grandi elementi di una democrazia: un soggetto che garantisse diritti e sicurezza, un soggetto che desse un senso alla vita, un soggetto capace di mediare tra società e decisori politici.
Il quadro è desolante e inquietante, si può recuperare?
Io sono sicuro che si può superare questa fase. Il Papa ha detto che siamo in un cambiamento d’epoca, non in una semplice epoca di cambiamenti. È un’analisi che illumina. Se c’è questo tipo di cambiamento non possiamo pensare a ricette del passato tutte incentrate attorno alla espansione illimitata dei diritti, sino a far diventare diritti i semplici desideri. Un nuovo senso della vita si può garantire solo con una politica dei doveri. Sono i doveri che danno un senso alla vita, non sono i diritti; eppure oggi pochi, forse nessuno, parlano di doveri. Doveri vuol dire comunità, vuol dire rispetto dell’altro, vuol dire limite. E oggi nessuno parla di limiti, di rispetto dell’altro… Di qui la situazione di assonnamento della ragione che c’è in giro. A mio avviso il punto di partenza è fare comunità; quello che manca soprattutto è la comunità, cioè un complesso di soggetti che si considerino provvisti di doveri verso l’altro e verso la comunità nel suo complesso.
Viene in mente le “profezia” di Aldo Moro: «Questo Paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere».
Con la lungimiranza che gli era propria, Moro aveva colto l’avvio di uno sgretolamento del sistema basato sulla corsa ai diritti, per cui si deve fare tutto ciò che si può fare. Questo consegna la società ai meri rapporti di forza, perché chi può fare fa. E chi non può fare sta a guardare, protesta o si rifugia nella satira. Non vedo soggetti in giro che stiano attivando un processo di fiducia.
Forse il Papa?
Io non sono cattolico, nel senso che non ho religione. Spero di avere fede, cerco di averla, legando ragione e fede, senza illudermi di poter capire tutto. Chi sono io per discettare su Dio? E quindi guardo con grande attenzione al Papa. Papa Francesco ha la sua storia nell’America del Sud, che è una cosa diversa dal mondo di cui stiamo parlando in questo momento. Lui giustamente spinge per i diritti degli ultimi, e fa benissimo. Però siamo su una lunghezza d’onda che alcune volte, lo dico con rispetto, dovrebbe essere coniugata con un processo più costruttivo della comunità: mi sembra che manchi la parte dei doveri. Ma potrei sbagliare. E manca un principio di gerarchia; si tratta di una parola che suona antica ma penso che una società democratica abbia bisogno di un principio di gerarchia. Per gerarchia non intendo un ordine civile piramidale, intendo una scala di valori cui corrisponde una scala di meriti, alla quale corrisponde una scala di responsabilità. Si parla oggi di morte della democrazia; i necrologi appartengono a un fase nella quale ritenevamo la democrazia in qualche modo incrollabile, piena di difetti, di buchi, ma incrollabile. E c’era una corsa a dimostrare quanti buchi avesse. Oggi molti credono lo Stato sia incrollabile e quindi lo si può benissimo spogliare di risorse e di competenze; va bene, ma poi? Democrazia e Stato possono essere considerati, come fanno in tanti, condizioni inestinguibili, come il sole, la pioggia, ma non è così. Il punto è che la democrazia e lo Stato devono essere curati, perché sono un prodotto umano e come tutti i prodotti umani vanno curati, altrimenti si essiccano. Ma come si curano democrazia e Stato? Credo che questo sia uno degli obiettivi che dobbiamo porci. A me sembra che sia necessario partire dalla ricostruzione di comunità, lo ripeto. Invece il partito piramide ha sostituito il partito comunità, con la caporalizzazione dei partiti politici, nessuno escluso. L’idea che la modernità sia semplicemente un continuo superamento del limite in ogni campo dell’agire umano, dà l’illusione della onnipotenza, che è l’anticamera della catastrofe. La stessa caduta dell’etica pubblica è determinata da questa trasformazione. L’etica è frutto dei valori di una comunità, non dell’imposizione dall’alto da parte di un capo.
Non a caso Mattarella insiste sui corpi intermedi.
A ragion veduta. Tra l’altro proprio a Sergio Mattarella si deve una delle migliori leggi elettorali che dava al candidato e al politico la consapevolezza di rappresentare un tot numero di persone e quindi doveva stare là, doveva parlare, ascoltare, eccetera… rappresentare appunto, essere il punto di riferimento di una comunità. Nella scorsa legislatura, ogni tanto venivano a trovarmi, un po’ segretamente, alcuni parlamentari del Movimento Cinque Stelle, e una volta una giovane, molto sveglia, mi disse: “ma noi che cosa non abbiamo? che cosa non sappiamo?”. Io risposi, da anziano: “Voi non conoscete il dolore delle persone. Chi fa politica conosce il dolore delle persone perché sta in mezzo alle persone che vengono a dirgli i loro problemi. Non vogliono che tu glielo risolva, vogliono che tu condivida il loro dolore. Questa è la questione. Voi parlamentari di oggi questa cosa non la conoscete. Magari state dove sta la gente, ma non vi mescolate”. Attraverso la conoscenza del dolore si può costruire la comunità, perché la comunità non è un circolo ricreativo, è un luogo nel quale si vive; si convive anche con le forze disgregatrici ma ci si impegna a sconfiggerle. Il Papa invita a non temere i conflitti, alla manutenzione dello squilibrio.
L’uomo di fede, di qualsiasi fede, può quindi giocare oggi un ruolo dentro questa crisi?
La fede dà speranza, ma dà anche responsabilità. È più facile ritrarsi che impegnarsi perché spesso sembra prevalere l’apparenza, mentre la fede è sostanza che non appare. Pensi all’uso sfacciato dei simboli religiosi… bene ha detto il cardinale Ravasi sul Corriere della Sera distinguendo tra fede e religione; quest’ultima è l’esteriorità. Oggi c’è, mi pare, una forte esibizione di questa esteriorità. Però la fede è un’altra cosa. C’è bisogno di persone di fede. Anche di una fede che non sia ultraterrena, ma di fede nel senso di persone che vogliono dare un senso alla vita, credere che la vita abbia un senso e che si impegnano su questo. C’è tanta gente che lavora spinta da una grande fede, sia di tipo secolare che di tipo religioso, ma tutto questo non emerge. Quanti ragazzi ad esempio fanno assistenza sociale e s’impegnano nel volontariato. I difetti si superano partendo dalle qualità; fermiamoci alle cose che funzionano, chiediamoci come mai funzionano e cerchiamo di estendere il modello.
Ho intervistato in questa serie Gioele Anni. Un ragazzo di 28 anni, uno impegnato nell’Azione Cattolica che non cerca alibi ma è motivato in modo contagioso a impegnarsi per il bene comune. Parlando di politica ha detto che oggi la politica è “una cosa complessa che ce la vendono facile”.
Mi fa venire in mente di nuovo Aldo Moro, di cui sono stato allievo, che una volta mi disse «bisogna distinguere tra semplificare e banalizzare. Chi semplifica toglie consapevolmente il superfluo, chi banalizza toglie inconsapevolmente l’essenziale». Questo “vendere facile” non è semplificazione, ma banalizzazione, si elimina l’essenziale e si mette in primo piano il superfluo. Noi siamo parte della complessità del mondo. Dobbiamo esserne consapevoli.
La crisi che stiamo vivendo è totalmente nuova o non c’è mai nulla sotto il sole come dice Qoelet? Forse un elemento nuovo c’è: la tecnologia, che ne pensa?
Ho ricordato il cambiamento d’epoca. Se c’è cambiamento d’epoca, c’è trasformazione. Chiamiamo crisi quello che è un processo di trasformazione. Se non saremo in grado di prendere in mano il processo e di portarlo avanti sarà deperimento, crisi appunto. Ma se saremo capaci di prendere nelle nostre mani il futuro, sarà trasformazione compiuta. Le nuove tecnologie pongono la necessità di un “umanesimo digitale”, di una rivisitazione dell’umano, per un’umanità che dev’essere più consapevole per non diventare subalterna alla macchina. Secondo me si deve ridefinire l’umano in rapporto alla tecnologia, non come separatezza ma come capacità di governo.
Nel dialogo con Habermas, l’allora cardinale Ratzinger sosteneva proprio questo, che c’è stato uno sviluppo enorme dal punto di vista tecnologico al quale non ha corrisposto uno sviluppo morale, da qui l’inquietante squilibrio.
È così, c’è uno squilibrio. C’è, ci deve essere, un’etica della tecnica. Come Fondazione Leonardo noi avremo un convegno il 21 e 22 novembre prossimo sui principi etici e giuridici dell’intelligenza artificiale e robotica perché senza etica non c’è nessun progresso nella tecnologia; non si può fare tutto ciò che si può fare, quello che si può fare dipende anche da quello che si riesce a governare. La tecnologia ci spinge ad approfondire il concetto di umano; la pura contrapposizione dell’umano alla tecnologia è già di per sé una forma di difesa fragile, destinata a soccombere.
D’altra parte dopo la seconda guerra mondiale il problema dell’umano si è riproposto, pensiamo al tema della dignità; l’Onu e la Ue si basano sul primato dell’umano.
Proprio per l’uso dissennato della tecnologia nella distruzione dell’altro emerse il discorso dell’umano, la dignità, il valore dell’uomo. Dopo la guerra si reagì. Pensiamo oggi all’uso della tecnologia nel campo della comunicazione: abbiamo fondato i meccanismi democratici sull’opinione pubblica ed ecco che vediamo come l’opinione pubblica può essere deviata da false notizie. Perciò abbiamo bisogno di un’umanità diversa che si formi sull’uso consapevole di questi strumenti. Si pone, senza esagerare in prediche, il problema del primato della verità, oggi forte più di prima.