Già prima dell’invasione le autorità separatiste di Lugansk e Donetsk avevano imposto il reclutamento generale. Gli uomini tentano in ogni modo di evitare l’arruolamento. I sussidi promessi loro da Putin non sono mai arrivati. In caso di morte in combattimento le famiglie ricevono meno di 200 euro di compensazione.
Vladimir Rozanskij
Nelle ultime settimane l’offensiva russa in Ucraina si è concentrata nel Donbass, cercando di garantirsi almeno questa regione per proclamare in qualche modo la vittoria della “operazione militare speciale”. Finora la Russia ha occupato quasi un quarto del territorio dell’intera Ucraina. Controllati in parte da separatisti filo-Cremlino dal 2014, gli oblast di Lugansk e Donetsk non sono però completamente sotto l’occupazione di Mosca; per questo gli uomini abili al servizio bellico di queste zone sono stati chiamati alla mobilitazione generale.
In Russia la resistenza a farsi coinvolgere nel conflitto ucraino è molto forte, e le autorità non possono premere più di tanto, non essendo formalmente dichiarato lo stato di guerra. Nel Donbass invece le condizioni sono esplicite, e il rifiuto di arruolarsi non è ammesso, ma gli uomini cercano in ogni modo di sottrarsi, attenendosi alla regola “siedi e stai zitto”, sperando di non essere notati e coinvolti forzatamente.
Anche coloro che sono già schierati nell’esercito russo-separatista cominciano a dare segni di insofferenza, dopo 100 giorni ininterrotti di azioni militari, e chiedono con sempre più insistenza di essere rimandati a casa. La mobilitazione generale nelle aree separatiste del Donbass era iniziata addirittura prima il 19 febbraio, prima dell’invasione. Le autorità locali l’avevano imposta basandosi sui documenti dei servizi condominiali, degli operai delle miniere, delle fabbriche metallurgiche e di altre strutture controllate dai separatisti, fino alle liste dei medici di base. A tutti era stato detto che la mobilitazione prevedeva un servizio di 90 giorni, ormai abbondantemente scaduti.
La massa dei soldati arruolati, quasi tutti con scarsa o alcuna preparazione militare, è stata trattenuta per settimane nei punti di raccolta di Makeevka e Dokučaev, usandola “per gli scavi”, che in gergo militare significa la costruzione delle trincee e delle infrastrutture belliche. Di solito non sono inviati in prima linea, e sono armati con equipaggiamenti di fortuna risalenti anche alla Prima guerra mondiale, al massimo con qualche nuovo puntatore ottico.
Tra i “mobilitati” vi sono musicisti delle filarmoniche, collaboratori delle procure, studenti degli ultimi corsi universitari e altre categorie di persone che non avevano modo di sottrarsi. Quando dopo i 90 giorni di contratto si è tentato di gettarli nella “macelleria” di Severodonetsk, sono scoppiate le proteste, accompagnate da video e messaggi ad amici e conoscenti per cercare sostegno al di fuori dell’esercito. In particolare si sono fatte sentire le madri, mogli e fidanzate dei militi improvvisati, per chiedere il loro ritorno.
Le amministrazioni separatiste avevano consegnato loro passaporti russi con procedura accelerata, ma di fatto la loro cittadinanza si è rivelata incompleta, e non sono arrivati neppure i sussidi sociali promessi da Putin, soprattutto alle famiglie dei caduti, distribuiti solo ai russi residenti nella Federazione. Ai mobilitati del Donbass è garantito solo il funerale gratuito in caso di morte in combattimento, con una compensazione alle famiglie di 5-10mila rubli (meno di 200 euro). Si era parlato di sussidi fino a tre milioni per ogni caduto, ma in alcuni casi i corpi dei soldati morti sono stati restituiti alle famiglie in bare sigillate, con la dicitura “causa della morte: Covid-19”. Solo alle famiglie dei metallurgici sono state concesse somme fino a un milione.
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