È come vorrei scrivere politica, perché non è una parola ma una realtà che assume e riassume la dignità della persona, come fine della sua stessa esistenza.
Temo che, guardandoci attorno, dobbiamo dire: “la politica è morta”. Tutta. Anche quella che si manifesta e si è sempre espressa in culture diverse dalla mia.
Oramai viene da lontano il disimpegno alla partecipazione: basta guardare le serie delle astensioni alle elezioni, ad ogni livello. Si salvano un po’ le elezioni amministrative, e vedremo il perché.
Perché andare a votare se non posso scegliere?
È stato accattivante lo spettacolo di mesi per indicare i candidati alle prossime elezioni regionali? È stata una penosa strumentalizzazione delle persone, i cui nomi venivano lanciati o ritirati quasi fossimo al gioco degli scacchi: delle persone come pedine in mano ai segretari di partito.
E i veti? Non è ancora chiaro che il meccanismo dei veti indebolisce sia chi lo pone sia chi lo subisce? Il risultato chiaro è che i partiti non hanno una riserva di classe dirigente su cui puntare a ogni tornata, senza peraltro scardinare posizioni in altre istituzioni — come richiamare in patria un deputato europeo o spostare un sindaco ad altra istituzione.
La scelta operata dagli elettori è del tutto indifferente rispetto al potere discrezionale dei partiti? Perché andare a votare se non posso scegliereg? E questo è il problema dei problemi, cui non sembra che le forze politiche si stiano dedicando per risolverlo.
Quando invece la politica è partecipazione
Quando gli elettori conoscono i candidati si esprimono con più convinzione, e i dati amministrativi (comprese le Regioni) lo dimostrano.
Se non si offrono ai cittadini le possibilità di scelta, le astensioni aumenteranno. E in un tempo in cui le democrazie sono in difficoltà e le autocrazie sembrano godere di buona salute, deve essere una preoccupazione che toglie il sonno.
Invece, la preoccupazione è se debba essere primo ministro il segretario del partito che ottiene il massimo consenso. È una scelta che è stata sperimentata con De Mita e con Fanfani: ricoprire i due ruoli contemporaneamente non ha portato bene. In entrambi i casi hanno perso segreteria e governo.
Serve la dialettica fra partito e governo in un sistema autenticamente democratico, perché i partiti controllano il governo e sono liberi di far crescere le loro proposte con il confronto fra forze politiche — competizione fra le opposizioni e contenuti programmatici.
Europa e visione del futuro
L’appiattimento sul governo impoverisce il dibattito e non fa crescere una classe politica di ricambio, come stiamo constatando.
Ottantatré anni fa i patrioti veri hanno dato la vita per conquistare una democrazia plurale, fondata sulla libera partecipazione politica, espressa col voto libero a suffragio universale.
Ora sembra si stia riproducendo il metodo con cui si sono svolte le elezioni politiche del 2022: una continua dialettica di contrapposizione sulle persone e sugli slogan. Le campagne elettorali durano per tutto il mandato, proponendo idee e soluzioni senza visione di futuro.
E qui emerge un altro grande problema, causato dalla politica con la “p” minuscola: per biechi nazionalismi, per raccattare voti su questioni del giorno per giorno invece che sul futuro, non si è fatta l’Europa.
E il danno, sia interno che internazionale, è sotto gli occhi di tutti.
[Il testo è uno stralcio dell’ultima newsletter della Presidente dell’Associazione Nazionale Partigiani Cristiani – ANPC]