Il 10 dicembre 1948 l’adozione della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” sanciva il completamento ideale e politico della costruzione del quadro postbellico delle relazioni internazionali. Quattro anni prima, la Conferenza di San Francisco aveva dato vita alle Nazioni Unite, nell’intento di dare stabilità al mondo che usciva da una guerra mondiale figlia di nazionalismi senza vincoli, ideologie della razza e ambizioni totalitarie. La Dichiarazione intese marcare una netta discontinuità politica e culturale, andando nella direzione di un chiaro riconoscimento del pluralismo delle culture umane e del modo in cui trovavano espressione le aspirazioni degli esseri umani e dei popoli. Anziché cercare di delineare un orizzonte teorico univoco, si scelse di porre l’accento su una serie di obiettivi pratici per l’attuazione dei diritti rispetto a cui, pur muovendo da sensibilità diverse, era possibile sviluppare un’azione comune e una cooperazione su scala planetaria.
Ad ispirare questa prospettiva fu Jacques Maritain, portatore di un’elaborazione filosofica che aveva preso le mosse dallo snodo storico del rapporto fra Cristianesimo e modernità. Negli anni della guerra, trascorsi in esilio negli Stati Uniti, il filosofo aveva ulteriormente sviluppato i propri studi interrogandosi sul fondamento necessario per un mondo che volesse uscire dall’età dei totalitarismi. In Maritain, la crisi della civilizzazione europea conseguiva da visioni antropologiche parziali, che ora riducevano l’essere umano a individuo, ora lo annullavano in un primato assoluto della società o dello stato. Quest’analisi aveva già trovato una prima codificazione nel testo forse più noto di Maritain, “Umanesimo integrale”, frutto del confronto con la tragedia della Guerra di Spagna. E proprio in quella guerra il filosofo aveva colto un primo coagularsi delle contraddizioni profonde di visioni ideologiche in lotta per l’egemonia sull’Europa, da cui erano emerse le macerie di Guernica e le stragi raccontate da Bernanos nelle pagine de “I grandi cimiteri sotto la luna”.
Il deflagrare del secondo conflitto mondiale è una cesura ancora più profonda nell’itinerario di pensiero di Maritain, per il quale diviene cruciale ripensare i rapporti che passano fra la dimensione morale e quella politica, chiarendo la funzione storica della democrazia come autentica traduzione politica di una visione compiutamente umanistica. Sono questi i temi al centro degli studi e delle riflessioni degli anni americani, nei quali si insiste sul fatto che per cogliere l’essere umano nella sua compiutezza e farne il cuore del discorso morale e politico serve ricorrere alla categoria di persona. Quest’ultima, per il filosofo, supera i limiti tanto dell’individualismo quanto di impostazioni che risolvono l’individuo nella società o nello Stato.
È noto come, alla radice di questo approccio, vi sia il profondo rapporto di Maritain con la tradizione tomista, nei cui contenuti egli vedeva la possibilità di un contributo positivo di umanizzazione cristiana della realtà sociale, economica, politica e culturale. Rileggendo quella tradizione alla luce dei conflitti ideologici che avevano portato alla guerra, quello maturato da Maritain non è un atteggiamento apologetico. Piuttosto, vi è la riscoperta di come l’essere umano sia di più del proprio io e di un noi indistinto. Sono le istanze morali e religiose che abitano la coscienza a qualificare l’uomo e ad imporre l’esigenza di una organizzazione politica che sia ordinata alla cura della sua dignità.
In uno scritto prezioso, “La persona e il bene comune”, elaborato nei mesi in cui si discuteva il testo della Dichiarazione universale, Maritain spiega che le relazioni in cui l’essere umano è calato richiedono di far accordare fra loro molteplici libertà.
Accanto alla libertà del singolo, infatti, vi sono quelle delle diverse realtà sociali di cui quel singolo è parte assieme agli altri esseri umani. Nella visione di Maritain fra queste libertà non c’è contrasto. Piuttosto esse possono aiutarsi vicendevolmente a crescere se sono esercitate alla luce dei principi morali di giustizia e amicizia civile, che prevengono la tentazione di assolutizzare una sola di queste libertà.
Rileggere il contributo di Maritain alla costruzione di un quadro politico e istituzionale mondiale richiede certamente la constatazione della distanza storica. Rispetto all’oggi resta tuttavia di particolare interesse comprendere come, di fronte al tornante epocale della guerra, il filosofo abbia cercato di andare alle radici delle tante tragedie attraversate per cercare una strada percorribile in direzione della cura dell’essere umano.
La ricerca di un ordine internazionale, per Maritain, chiedeva un ripensamento della politica, per renderla capace di dare voce alla coscienza morale di un’umanità segnata dall’aspirazione naturale alla libertà. Il personalismo così delineato non aveva i caratteri di un’ideologia che impone una determinata struttura alla realtà e alla vita umana. Esso emerge come uno sforzo di riconoscimento della ricchezza plurale della natura umana, delle sue capacità, delle sue aspirazioni, del suo essere caratterizzato da istanze morali profonde. Si disegna in questo modo il profilo di un ideale storico su cui si può misurare il contributo dei cristiani, perché: «la sua realiz-zazione…sarebbe come una conseguenza ed un effettuazione terrena di quella coscienza della dignità della persona umana, e delle sua vocazione eterna in qualsiasi uomo, che la rivelazione del Vangelo ha fatto penetrare nel cuore dell’umanità».
In questo vi è anche la scoperta di come l’autentica democrazia abbia il suo cuore pulsante al di sotto e al di là delle diverse forme istituzionali o procedurali possibili, perché in quanto espressione della dignita umana essa è essenzialmente un fatto spirituale.
Fonte: L’Osservatore Romano – 28 gennaio 2025
Titolo originale: Perché la democrazia è un fatto spirituale
Autore: Riccardo Saccenti
[Articolo qui riproposto per gentile concessione del direttore dell’Osservatore Romano, Andrea Monda]