Pubblichiamo in anteprima il primo, di due capitoli, dedicati al controverso tema dell’impeachment a Donald Trump, che è presente nel nuovo libro di Claudio Taddei. “La guerra a Trump come patologia dell’Occidente” è il titolo della nuova fatica di letteraria di Taddei che uscirà a fine febbraio per le Edizioni Robin.
Alla fine di settembre 2019 si giunge all’atto estremo della guerra a Trump, qualcosa di cui i Democratici parlano dal giorno in cui Trump fu eletto presidente. Il 24 settembre l’impresentabile Pelosi, leader dei Democratici alla Camera, sale su un podio e annuncia ai media una “richiesta di impeachment” nei confronti di Trump. Possiamo notare che l’annuncio è implausibile, fuorviante, anche dal punto di vista procedurale: per avviare un impeachment deve votare tutta la Camera, non basta il consenso delle Commissioni, i cui vertici nel 2019 sono occupati dai turpi personaggi di cui ho detto altrove. Il processo di impeachment deve avere una motivazione, che in questo caso non c’è. Che poi i media e la cospirazione consentano di portare avanti le accuse è un’altra questione. Ma l’impeachment, come afferma correttamente Tom Fitton (che presiede il credibile Judicial Watch), non scavalca e non annulla le regole costituzionali. Quello annunciato dalla Pelosi è un attacco premeditato a Trump e ai suoi elettori. L’annuncio è lo scopo in sé: l’annuncio mediatico per confondere le menti e costruire la sovversione.
Il difetto procedurale è il minore dei mali in una disonesta iniziativa politica, spinta avanti da media corrotti, in accordo con un partito politico, con lo scopo di abbattere o almeno danneggiare un presidente. Per quanto privo di fondamento e dunque ignobile sia il tentativo di impeach, il pericolo esiste, perché il pubblico non sa o non può approfondire gli eventi, e forma il proprio giudizio su quanto gli arriva dai media. L’annuncio del 24 settembre dà inizio anche fuori dall’America a una sordida manipolazione mediatica dei fatti. Per esempio in Italia il titolo di Repubblica è: “Trump sotto accusa per abuso di potere”; quello del Corriere della Sera: “Trump trema. La telefonata che lo accusa”.
Il rinnovato colpo di stato è costruito intorno all’accusa, derivante dalla “denuncia” (complaint) presentata da un “informatore” (whistleblower), secondo cui in un colloquio telefonico del 25 luglio 2019 con il presidente ucraino Zelensky, Trump avrebbe “fatto pressioni” (secondo le false parole della Pelosi e dei media) su Zelensky affinché indagasse su illeciti compiuti dall’ex vicepresidente Joe Biden in Ucraina, e avrebbe “minacciato” Zelensky di fermare gli aiuti finanziari in caso contrario. Nessuna delle due cose è avvenuta: le “pressioni” sono smentite dal presidente ucraino, le “minacce” o anche solo il collegamento con gli aiuti non vi sono stati. Il contenuto della telefonata diviene pubblico il giorno dopo l’annuncio della Pelosi, quando Trump – con una decisione che toglie ossigeno alle accuse – autorizza la pubblicazione del testo integrale. Il 25 luglio, il motivo del colloquio con Zelensky è il successo nelle elezioni parlamentari ucraine del partito di Zelensky, che promette la lotta alla corruzione. Il contrasto alla corruzione è l’argomento della telefonata, e in tale ambito trova posto la richiesta di Trump di indagare su un eventuale ruolo di cittadini ucraini nella fase iniziale dell’indagine Mueller (il precedente governo ucraino fu, come quello italiano e altri, contattato quando il direttore della CIA Brennan e i vertici Democratici cercarono di costruire accuse a carico di Trump), e poi di indagare sul licenziamento nel 2015 di un alto procuratore ucraino: episodio di cui si è vantato Joe Biden, il quale nel luglio 2019 è soltanto un cittadino americano candidato alla presidenza. Di aiuti finanziari nella telefonata non si parla affatto. Il tono della telefonata è gentile, mite. Ma, indifferente ai reali contenuti del colloquio con Zelensky, la messa in scena dei Democratici e dei media è costruita intorno al complaint dell’informatore, cioè di una spia, di cui sapremo che è un ex collaboratore di Brennan (il direttore della CIA vicino a Obama); dopo la pubblicazione del complaint, Brennan si complimenta con lui in TV. Veniamo anche a sapere che la spia è un “registered Democrat”, cioè iscritto al partito Democratico. Nell’ottobre 2019 un’inchiesta del Washington Examiner rivela poi che il delatore ha lavorato per Biden quando questi era vicepresidente.
Ora, la parola whistleblower in americano non ha un significato negativo; potremmo tradurla “informatore autorizzato di illeciti”, spesso illeciti governativi. Ma per essere tale, la sua denuncia deve avere criteri di credibilità, che il complaint della spia di Brennan non ha: per esempio, dev’essere basata su conoscenza diretta, non sul sentito dire e non su fatti riferiti da terze persone. Invece la denuncia di cui parliamo è del tutto, in modo dichiarato, basata su dati di seconda mano (la prima restando sconosciuta, il che sembra non interessare i media), su voci anonime e addirittura su rapporti di media come il Washington Post, la rete ABC, Bloomberg, tutti notoriamente avversi a Trump. Il complaint è un documento disonesto, denunciato come tale da osservatori credibili (Mark Levin, Lou Dobbs, John Solomon e altri). Mark Levin per primo, poi altre voci, fanno anche notare che il complaint è scritto come una deposizione legale, costruita da uno o più avvocati. Riguardo poi al fatto che la denuncia è basata sul sentito dire, sconcertante è l’apprendere che, pochi giorni prima del 24 settembre, su un sito ufficiale dell’Intelligence è apparsa la notizia di una modifica alle regole che riguardano i whistleblowers, in base a cui non è più necessario che le informazioni riportate siano di prima mano. La modifica risale ad agosto; la lettera con la “denuncia” inviata dal delatore alla Commissione Intelligence della Camera è del 12 agosto. Se sono coincidenze, sono davvero straordinarie.
I tempi della vergognosa farsa iniziata dall’annuncio della Pelosi sono premeditati. I vertici Democratici della Commissione Intelligence (cioè l’abbietto, squilibrato Schiff, a cui la Giustizia americana dovrebbe togliere l’immunità per le menzogne che propaga da tre anni) avevano in mano la lettera da sei settimane. La scelta di occupare i media con l’annuncio dell’impeachment ha lo scopo immediato di cancellare le importanti notizie di quei giorni di fine settembre. Pelosi sale sul podio il giorno dopo l’eccellente e puntuale discorso all’ONU di Trump, con quella magnifica affermazione (“Il futuro non appartiene ai globalisti, bensì ai cittadini delle nazioni”) che così tanto disturba i custodi del gregge globale. Sono anche i giorni in cui i Democratici in Congresso e i loro giudici in alcuni distretti cercano, di nuovo, di bloccare la costruzione del muro sul confine sud. E sono i giorni in cui in Senato viene presentata la rovinosa legge, voluta dalle grandi società di Internet e dalla Chamber of Commerce, sull’aumento dei visti H1-B, che riempiono le aziende USA, soprattutto in settori scientifici, di diplomati stranieri (in particolare indiani), senza dubbio a danno dei giovani americani.
L’isteria percebile nelle parole della Pelosi, o negli annunci da ciarlatano di Schiff (presentati come notizie da media corrotti come la CNN o la MSNBC), aggiunge patologia alla macchinazione. Come nelle calunnie verso il giudice Kavanaugh, tra media e Democratici vi è una competizione nel rivestire di falsa legalità le menzogne, allo stesso modo in cui brutte figure del mondo dello spettacolo e del cinema competono sui social media riguardo ai migliori modi per decapitare, pugnalare, smembrare il presidente. In Congresso si distingue Schiff, il quale arriva a leggere, mentre milioni di cittadini lo guardano alla TV, una versione falsificata, alterata, della telefonata di Trump con Zelinsky. Come è accaduto per oltre due anni riguardo alla collusione “russa”, di nuovo Schiff dice il falso e inganna il pubblico. La richiesta da parte di Trump di sue dimissioni è più che giustificata. Egli non può restare a capo della Commissione Intelligence. Ma poiché la destituzione dovrebbe venire dalla Pelosi e dunque non vi sarà, da un’autorità di giustizia dovrebbero venire il suo arresto e la detenzione per azioni proditorie, superando l’immunità di cui i politici godono. Rudy Giuliani afferma che l’immunità decade quando Schiff o altri politici parlano fuori dal Congresso, per esempio ai media. Ci chiediamo anche se possono restare impuniti i tre senatori Democratici (Durbin, Menendez, Leahy) che nel maggio 2018 scrissero una lettera al procuratore generale in Ucraina minacciando, in modo esplicito, di fermare in Congresso gli aiuti per l’Ucraina se la procura di Kiev non si fosse adeguata alle richieste degli avvocati di Mueller, volte a costruire accuse verso Trump. E ci chiediamo se può restare impunito il ricatto del senatore Democratico Murphy, che in una conversazione (di cui esiste l’audio) con Zelensky a inizio settembre 2019 minacciò il taglio degli aiuti finanziari se il governo ucraino avesse mandato avanti l’indagine sulla società ucraina del gas che pagò, secondo il giornalista investigativo John Solomon, stipendi molto alti (fino a 83 mila dollari al mese) al figlio di Biden, senza che quest’ultimo avesse competenze da offrire. I Democratici hanno fatto, lontano dai media, ciò di cui accusano Trump, e che Trump non ha fatto. Ma nessuno ne parla, e nessuno indaga.
Nel colloquio di Trump con Zelensky non vi sono minacce, non si propone uno “scambio” (come afferma, mentendo, la Pelosi), non vi è menzione degli aiuti all’Ucraina. In quel colloquio Trump chiede a Zelensky, con tono non perentorio, di verificare la vicenda del procuratore ucraino licenziato su richiesta di Joe Biden: vicenda denunciata da quello stesso procuratore (Victor Shokin) con un “affidavit” (dichiarazione scritta e giurata) consegnato a Rudy Giuliani nel novembre 2018. Trump dice a Zelensky: “Si parla del figlio di Biden e del fatto che Biden fermò il procedimento penale. In tanti vorrebbero sapere che cosa è accaduto. Qualunque cosa potete fare, o se potete sentire il nostro ministro della Giustizia, andrebbe bene. Biden si vanta di aver fermato l’azione penale. Vedi se potete verificare (look into) la cosa. Mi sembra una gran brutta faccenda”. Quanto egli dice è del tutto lecito e in gran misura (come osservatori credibili hanno detto) doveroso. Trump è il capo dell’esecutivo: ha il diritto-dovere di rivolgere a un leader straniero una richiesta riguardo a un possibile caso di corruzione che coinvolge un cittadino americano, e più in generale di sollecitare da un leader straniero le informazioni che ritiene opportuno avere. Il fatto che Biden in quel momento sia un candidato alla presidenza non cambia niente, e non è – dicono gli esperti della materia – una violazione delle regole elettorali. Un candidato alla presidenza non è al di sopra della legge. Del licenziamento del procuratore ucraino, Biden si è vantato in una conferenza di cui esiste un video. Se un ex vicepresidente ha abusato del suo potere d’ufficio, Trump ha il dovere di chiedere chiarezza; poi, ovviamente, può farlo o no. Il reato commesso, e che rimane senza conseguenze, è l’aver spiato una telefonata del presidente, inducendolo a renderla pubblica e compromettendo (come si è detto) le future relazioni con leader esteri, che devono restare riservate.
Il reato è avere un ex agente della CIA che spia il presidente. Il mandato della CIA è difendere la nazione dalle minacce dall’estero. Chi ha messo l’ex agente CIA a spiare Trump? Brennan (leggi Obama)? Chi nella CIA attuale l’ha autorizzato? Vi sono contraddizioni tra la “denuncia” pubblicata dai media e ciò che il delatore scrisse all’ispettore dell’Intelligence: nel modulo delegato allo scopo, egli scrisse di avere informazioni “di prima mano”. Nella “denuncia” invece egli, o l’avvocato che scrive per lui, afferma e ribadisce l’opposto: tutto gli è stato riferito da persone terze. I promotori del falso impeachment sono impegnati nel tenere nascosta l’identità del delatore, con il pretesto di un’esigenza di protezione. La realtà è che l’informatore è un infiltrato, collocato in quella posizione per dare il via all’inganno premeditato. Riguardo alla sua “denuncia” egli dev’essere interrogato in Congresso dai Repubblicani. Il delatore non è un whistleblower, cioè un informatore riconosciuto e “da proteggere” (come si usa dire degli informatori). La sua lettera, fitta di richiami legali e accuse incoerenti, lo squalifica secondo le misure usate per valutare la credibilità di una spia: misure che restano in vigore, anche dopo le (peraltro sospette e da indagare) modifiche dell’agosto 2019. Il delatore ebbe contatti con lo staff di Schiff prima di scrivere la sua lettera. È molto probabile che la “denuncia” sia stata preparata e scritta da avvocati di Schiff (lo stesso avvocato ufficiale del delatore fu in passato al servizio di Schumer e di Hillary). Il delatore è un “attivista di partito” (“partisan hack”): così lo giudicò il direttore dell’Intelligence Maguire, che in agosto inviò il reclamo dell’informatore al ministro Barr, il quale confermò il giudizio di Maguire.
Non così la Pelosi e i deformi custodi della legalità che presiedono le Commissioni della Camera. Essi portano avanti la messa in scena perché i media – braccio operativo del partito Democratico – lo consentono. Alcune ore prima dell’annuncio di impeachment, Trump aveva dichiarato che il giorno successivo il testo integrale del colloquio con Zelensky sarebbe stato divulgato. La Pelosi non aspetta, perché i fatti e la verità non contano, e perché è già a conoscenza della “denuncia” dell’informatore (divenuta pubblica due giorni dopo), su cui basare la messa in scena. Quando poi, due settimane più tardi, la credibilità del delatore appare compromessa, da parte del suo avvocato arriva la notizia che vi è un secondo whistleblower della telefonata sotto accusa. È lo schema seguito dai Democratici nel caso del giudice Kavanaugh: prima un’accusa falsa, poi una seconda e così via. Ma con il rendere pubblico il testo integrale del colloquio telefonico, Trump smonta l’accusa, perché a quel punto ognuno di noi sa, del colloquio con Zelensky, più di quanto ne sapesse il delatore quando ha scritto, o lasciato scrivere a un avvocato, la “denuncia”. E ognuno di noi può giudicare da sé, leggendo il testo della telefonata, in cui non vi è nulla, assolutamente nulla, che conduca ad accusare il presidente.
In un’intervista dell’ottobre 2019, il primo e più importante testimone riguardo alle accuse di cui è investito Trump, cioè il presidente ucraino Zelensky, conferma – benché sollecitato a fare il contrario dal giornalista americano della ABC che lo intervista – che nel colloquio con Trump non vi furono “né pressioni né ricatti”, come il testo della telefonata documenta. Zelensky afferma anche che il suo governo aveva iniziato indagini sulla società del gas, che fu così prodiga con il figlio di Biden, già mesi prima del colloquio con Trump. Quanto alla decisione di Trump di rendere pubblica la telefonata, non si tratta di una prassi ripetibile. La diplomazia richiede riservatezza, anche quando le intenzioni sono buone. E non sempre lo sono. Se pensiamo, per esempio, al rendere pubblici i colloqui telefonici di Obama con il regime iraniano, c’è da rabbrividire. Trump non era obbligato a rilasciare il testo. Il privilegio esecutivo consente a un presidente di non farlo, anche se richiesto dal Congresso. In questo caso i Democratici non chiesero il rilascio del testo, anzi ne furono sorpresi.
Con il nuovo atto del colpo di stato, l’iniziativa e gli annunci mediatici rimangono ai Democratici. Alla Camera i congressmen Jordan, Ratcliffe, Gaetz, Meadows e altri del Freedom Caucus fanno quello che possono, ma ai Repubblicani è negata (dalle regole senza precedenti fissate dalla banda Pelosi-Schiff and Co.) la possibilità di convocare i propri testimoni e, per sei settimane, di interrogare in pubblico quelli della controparte. Schiff impedisce che testimonianze come quella dell’inviato USA in Ucraina (Volker) siano rese pubbliche. Inoltre Schiff svolge il ruolo di procuratore dell’accusa nei confronti del presidente, però è anche un testimone, perché lui o il suo staff hanno incontrato il delatore: voci competenti in materia affermano che in nessun caso, nel sistema di giustizia americano, le due funzioni sono svolte da una stessa persona.
L’esito del falso impeachment dipende dal Senato. La Commissione Intelligence del Senato, presieduta dal Repubblicano Burr, che non ha mai sostenuto Trump, è inerte. Tale Commissione dovrebbe, invece, rendere pubblica una lista di testimoni da interrogare, a cominciare dal delatore e dallo stesso Schiff. Vi è un’altra strada, che potrebbe smontare la messa in scena: il leader del GOP in Senato, McConnell, potrebbe non accettare il dibattito in Senato sull’impeachment, che comunque non avrebbe la maggioranza dei due terzi per essere approvato. Purtroppo, oltre agli uomini del Freedom Caucus alla Camera, solo pochi senatori del GOP sembrano capaci di denunciare la sarabanda di aggressioni verso il presidente e le turpi esibizioni di politici Democratici con la schiuma alla bocca (Schiff, Nadler, Pelosi e altri; quanto alle vicende interne dei Democratici, poco interesse ha il fatto che la Pelosi usi la procedura di impeachment per proteggere la sua posizione di speaker da chi è ancora più a sinistra di lei: ciò che conta è che essi non si curano di recare danno al paese). Poiché il Senato ha il potere costituzionale di vigilare sull’operato della Camera, McConnell e senatori come Lindsey Graham, che è a capo della Commissione Giustizia, devono spegnere il fuoco del falso impeachment. Si deve portare a conoscenza del pubblico ciò che è avvenuto, si devono costringere i media a parlarne, si deve mettere in chiaro il carattere illegittimo e falso della “richiesta di impeachment”. Più che giustificato è il tono risentito con cui Trump scrive, in un tweet (ottobre 2019): “Quando i Democratici pagheranno per ciò che stanno facendo al nostro paese, e quando i Repubblicani reagiranno all’attacco?”.
Poi vi è la è parte facile (in teoria, perché in pratica i media operano per trascurare il tema e il GOP in Senato non si muove): indagare su quanto emerso riguardo alle vicende ucraine del figlio di Biden e chiamarlo a testimoniare sotto giuramento. Il problema non è la candidatura di Joe Biden alla presidenza, che era comunque compromessa da altri fattori. Il problema è portare attenzione su una vicenda che era nota ma fu insabbiata e sparì dai media. Attenzione significherebbe un’indagine sul via libera di Joe Biden ai finanziamenti del governo Obama a Kiev. Vi furono “pressioni” (quelle che Trump non ha fatto, se non nella misura in cui vi è sempre uno “scambio” nelle relazioni diplomatiche) da parte di Biden sul precedente governo ucraino per il licenziamento del procuratore Shokin, che stava indagando. Biden minacciò, come egli stesso si è vantato di aver fatto, di bloccare i finanziamenti se Shokin (di cui si afferma che sia ancora disposto a testimoniare) non fosse stato allontanato. Nel video registrato presso il CFR, Biden racconta di aver detto all’ex presidente ucraino Poroshenko: “Se non mi credi, telefona a Obama”. Dunque vi sono evidenze poco confutabili. Più difficile sarà portare alla luce, per l’opposizione del governo cinese, un’analoga vicenda di corruzione tra Biden e il governo di Pechino. Governo che, in cambio del silenzio sulle proprie scorrette politiche commerciali, trasferì (come ha documentato, tra gli altri, Peter Schweitzer, in un libro dal titolo Secret Empires e in interviste a Fox News), cifre ingenti, addirittura 1,5 miliardi dollari, a una società in cui aveva interessi il figlio di Biden.
La Costituzione americana assegna alla Camera, con molte cautele, la possibilità di impeach un presidente. Ma quello di fine 2019 non è un impeachment della Camera, bensì solo del partito Democratico. Dunque non è ciò che prevede la Costituzione; anzi, è quanto essa intendeva evitare. Non è mai accaduto nella storia americana che un’indagine di impeachment abbia inizio senza che vi sia un voto della Camera intera. Non è mai accaduto che un partito convochi dei presunti testimoni e impedisca agli avvocati dell’accusato, cioè del presidente, di interrogarli. I Democratici cambiano le regole procedurali, nascondono l’identità dei delatori, chiamano a deporre burocrati avversi a Trump e residuati del governo Obama. I media sostengono la messa in scena. Essi ricevono dai Democratici notizie parziali, scelte con l’intento di distorcere la testimonianza (un caso che ho citato è quello di Volcker), e le rendono pubbliche come se si trattasse di fatti veri. L’ultima volta che vi fu l’impeachment di un presidente, nel 1998 nei confronti di Clinton, ai Democratici furono dati pieni diritti di difendere Clinton, convocare testimoni, interrogare i testi dell’accusa, e agli avvocati del presidente fu consentito di partecipare a ogni fase. Tutto era pubblico. L’intenzione dichiarata (da Newt Gingrich) era di rendere la procedura “corretta nei confronti del presidente”. Del resto si tratta di procedure osservate anche per i delinquenti (Mark Levin: “I terroristi ottengono un processo regolare più di quanto la Camera conceda a Trump”). Come può difendersi Trump, o chiunque, da accuse anonime, gestite da una parte politica e presentate dai media come rivelazioni? Non occorre un esperto costituzionale per affermare che si tratta di un sopruso. Le regole non contano, perché si tratta di un colpo di stato. I nemici di Trump non hanno in mano niente per formulare un’accusa credibile, se non il polverone mediatico.
Davanti a una coreografia così disonesta, concordo con chi in America afferma che Trump non deve collaborare in alcun modo (a differenza di quanto fece per l’indagine Mueller), né consegnare documenti, né autorizzare collaboratori a testimoniare, né tantomeno rispondere lui alle accuse in Congresso (come è tentato di fare dalla sua indole pugnace e incline ad accettare la polemica). In nessun modo la procedura dev’essere avallata. La Costituzione, oltre alla realtà dei fatti, sono dalla parte di Trump. Negli USA non vi è il sistema parlamentare inglese, dove il primo ministro è in carica a discrezione della Camera uscita dalle elezioni. Gli USA sono una repubblica presidenziale, dove il potere esecutivo ha pari diritti e autonomia del potere legislativo e di quello giudiziario. Peraltro il Congresso non è al di sopra della legge. L’impeachment messo in scena dai Democratici a fine 2019, in violazione della Costituzione, delle leggi in materia e dei precedenti storici, è “void”, cioè privo di validità.
Dunque corruzione, ostruzione della giustizia, utilizzo proditorio delle strutture di intelligence, abuso del potere conferito dalla maggioranza alla Camera e abuso del potere mediatico a danno dei cittadini: questi e altri reati sono imputabili nella vicenda del falso impeachment, e nessuno di essi è a carico di Trump. La pubblicazione del testo del colloquio telefonico ha smontato la cospirazione. Davanti al coro dei media che in America attaccano Trump (o, in Italia, dei loro ripetitori), per il pubblico la vicenda è un’occasione per prendere le distanze dal pensiero di gruppo. Di nuovo, come per la truffa della “collusione” russa, i responsabili devono pagare, e non in un giorno vicino a quello del Giudizio, bensì subito. Dovrebbero pagare, ed essere esposti a pubblico disonore per infamia e tradimento, i politici che hanno mentito, come la Pelosi, Schiff, Nadler; dovrebbero essere espulsi dal Senato i senatori che hanno cospirato con un governo straniero per danneggiare il presidente; dovrebbero pagare gli operatori mediatici che sostengono il colpo di stato e la truffa del falso impeachment. Dovrebbero.
La “denuncia” del delatore-attivista politico fu scritta per i media e fu scritta da avvocati al servizio di Schiff. Questo è un grave illecito. Al contrario, per un presidente dialogare con leader stranieri riguardo a indagini criminali, o riguardo ad accuse di corruzione, è una procedura abituale e reciproca. Alla Camera, quando nel novembre 2019 alcune deposizioni divengono pubbliche, i congressmen del Freedom Caucus lavorano bene, mettendo in chiaro l’inconsistenza delle accuse. Essi chiedono di interrogare il delatore: di conoscere le sue relazioni, di sapere se ha violato accordi di sicurezza e dunque commesso un reato, se ha consegnato agli avvocati di Schiff documenti riservati, il che è di nuovo un reato. La presidenza della Commissione Intelligence (Schiff) respinge la richiesta. I Democratici vogliono portare avanti la truffa il più a lungo possibile. Siamo davanti a una congiura di palazzo consentita dai media; e, come afferma l’ex procuratore Joe DiGenova, siamo a un passo dalla “distruzione dell’ordine costituzionale che i Fondatori della nazione stabilirono”. L’impeachment non fu previsto per consentire alla Camera di prevaricare il potere esecutivo. Forse anche per il carattere senza precedenti di quanto avviene, il sistema di governo non ha forze sufficienti per abbattere la congiura con un urto frontale. Gli agenti del Deep State (che poi, come dice Steve Bannon, non è tanto deep, poiché le sue azioni sono evidenti a chiunque) sono pronti a distruggere la credibilità della giustizia e del sistema politico americani per i loro scopi. Molto grave è che solo una parte del pubblico comprenda gli eventi. Il continuo battere di messaggi fuorvianti da parte dei media più diffusi ha un effetto sul pubblico. Se al pubblico arriva una quantità sufficiente di bugie, esse possono divenire concetto dominante e pregiudizio. È già successo in passato.
L’impeachment è una cosa seria. La decisione di aprire un processo di impeachment è un atto estremo. Gli autori della Costituzione americana intesero impedire che interessi politici ne fossero la motivazione quando scrissero che l’impeachment avviene per “crimini e misfatti di grave entità”. In seguito, dopo che per la prima volta un presidente fu impeached (Andrew Johnson nel 1868), davanti al pericolo che l’equilibrio tra potere legislativo ed esecutivo fosse compromesso, la Corte Suprema confermò il principio che il Congresso non può rimuovere un presidente soltanto perché è in disaccordo con lui “riguardo alla sua politica, al suo stile e alla sua gestione dell’incarico”. Nei tre casi in oltre due secoli in cui si è giunti a impeach un presidente, vi fu alla Camera un consenso bipartisan, prima di passare la decisione al Senato. Nessun presidente nella storia recente è stato indagato, esaminato, sottoposto a cause legali, senza trovare prove di condotta illecita, quanto Trump. Siamo di fronte a un colpo di stato che prosegue con modalità pianificate per condizionare il pubblico nelle elezioni del 2020. Il falso impeachment è una vetrina di ipocrisia, gestita dai media e dai politici Democratici con il sostegno della piovra che si usa definire Deep State. Nel 2020 la nazione americana è di fronte a una scelta decisiva. I senatori del GOP dovrebbero comprenderlo e avere la fibra sufficiente per mandare al pubblico – cioè a quella parte di società disposta a capire e non vincolata da manipolate ottusità – un messaggio non equivoco.