La scomparsa di Giorgio La Morgia, avvenuta venerdì 16 ottobre, evoca momenti significativi di storia e cronaca della Dc romana. Il 23 giugno aveva festeggiato con la figlia Maria Grazia il suo novantacinquesimo compleanno. Da tempo viveva ritirato nella sua abitazione al quartiere Talenti, lontano da frequentazioni che inesorabilmente erano andate affievolendosi, mantenendo però vivo fino all’ultimo il rapporto con le vicende politiche. Era sempre informato, lucido nel cogliere l’essenziale, intimamente coinvolto. Tuttavia serbava il ritegno e la sobrietà delle persone intelligenti, consapevole che la sua testimonianza apparteneva a un ciclo ormai lontano, definitivamente chiuso.

Da giovane aveva preso parte alla lotta di liberazione ed era entrato in contatto con il gruppo dei cattolici repubblicani, raccolto attorno al quindicinale “Politica d’oggi” di Domenico Ravajoli e Alberto Canaletti Gaudenti. Con altri, fu espulso dalla Dc proprio perché in quel frangente De Gasperi – sicuramente repubblicano – non intendeva esporre il partito su una linea di netta contrapposizione ai monarchici. 

Si racconta che al primo congresso nazionale, svoltosi nella primavera del 1946, riuscì comunque ad entrare nell’Aula Magna della Sapienza, dove si svolgeva l’assise democristiana. Quando nel bel mezzo della maratona congressuale risuonò il grido “No all’agnosticismo, viva la Repubblica”, feroci sguardi di riprovazione si appuntarono su di lui. Anzi, non solo gli sguardi ma l’intervento fisico, non proprio dolce, di un responsabile dell’organizzazione, il quale, anche per legami incipienti di parentela, nonostante la “scomunica” lo aveva fatto entrare. Si dichiarò sempre, in famiglia e con gli amici, incolpevole dell’incidente (forse causato…da un prete).

Il suo impegno nella Dc romana passa all’inizio per la sezione Monti-Macao. Qui diventa delegato giovanile e successivamente segretario del partito. A ventiquattro anni entra a far parte del Comitato romano e quindi, di lì a breve, della giunta esecutiva. Dirigente organizzativo, responsabile dell’Ufficio Studi e Propaganda (Spes), vice-segretario del Comitato Romano: fino a metà degli anni ‘50 avanza di gradino in gradino nelle responsabilità di partito.

Fulgida anche l’esperienza amministrativa. Nel 1956 è eletto in Consiglio provinciale, diventando poi assessore, così avviando un percorso che lo vedrà molto dopo, nel quadriennio 1972-1976, alla guida dell’Ente. Ciò nondimeno, fra un prima e un dopo a Palazzo Valentini, La Morgia ha modo di irrobustire il suo curriculum di amministratore pubblico grazie alla nomina a Presidente dell’Atac nel 1963. 

È però nel partito che si gioca la sua attitudine all’esercizio di funzioni eminentemente politiche. Siamo in pieno ‘68, fra la rivolta degli studenti (scontri di Valle Giulia) e le prime marce contro la guerra del Vietnam. A maggio si sarebbero tenute le elezioni e Nicola Signorello, da tre anni alla guida del partito, in base allo statuto si dimetteva per essere candidato al Senato. All’inizio dell’anno era esplosa la bomba: Americo Petrucci, anche lui intenzionato a presentarsi alle elezioni, aveva rassegnato le dimissioni da Sindaco, ma soprattutto era stato raggiunto da un provvedimento giudiziario che ne aveva fatto, agli occhi della pubblica opinione, l’emblema della corruzione democristiana. In quella circostanza, la mitica Anna Magnani dichiarò di sentirsi “profondamente sconcertata”, augurandosi  che in sede di processo si potesse dimostrare come le accuse fossero “prive di ogni fondamento”. In effetti, dopo anni di tormento, Petrucci fu assolto.

A caldo le polemiche furono molto aspre. A dirigere la federazione regionale del Pci era stato chiamato Enrico Berlinguer. Questi, con linguaggio d’inusitata durezza, agitò per la prima volta la bandiera della diversità comunista. “Un attacco a fondo – dichiarò nell’incontro dell’attivo romano – deve essere portato a tutta la classe dirigente romana che fa capo ad Andreotti e a Petrucci. Di fronte all’avvilente spettacolo di un ex Sindaco dc arrestato per una serie di reati, dobbiamo contrapporre l’onestà dei comunisti: anche ai numerosi cattolici indignati in questo momento per il miserabile spettacolo fornito dai loro dirigenti dobbiamo far comprendere che il Partito comunista è il partito degli uomini con le mani pulite” (L’Unità, 23 gennaio 1968, p. 6). Insomma, si potrebbe dire che fatti e misfatti, con retorica annessa, non sono nati nel 1992 con l’operazione Mani Pulite della Procura di Milano.

Con La Morgia a via dei Somaschi, sede della Dc romana fino allo scioglimento (e oltre come Ppi), arriva un gruppo di giovani (Rolando Rocchi, Elio Mensurati, Raniero e Ruggero Benedetto) che si costituirà come architrave della struttura di partito, avviando perciò la sua apertura ad energie nuove.

A La Morgia spetta il compito di gestire le liste e la mobilitazione del partito. La sua preoccupazione consiste anzitutto nel contribuire alla difesa della formula del centro-sinistra. In apertura di campagna elettorale al Supercinema, il giorno stesso del ventennale della storica vittoria scudocrociata del 18 aprile, di fronte al segretario nazionale Mariano Rumor e al Presidente del Consiglio Aldo Moro esprimerà nel discorso introduttivo un concetto cardine della filosofia sociale e politica di matrice democristiana: “Ogni progetto economico, anche notevole, è vano se non si sviluppa con una tensione morale che ponga la persona umana nella sua interezza a cardine della costruzione sociale“. 

Uomo arguto, pronto alla battuta sapida e persino irriverente, saprà sintetizzare un giudizio severo sulle attitudini manovriere e opportunistiche dei suoi colleghi con una metafora, destinata a rimanere nella memoria collettiva, fissando con parole da antico fescennino romano il contrasto tra la fissità dei paracarri e la mobilità dei furbi. Era il suo modo di distinguersi, anche nella spicciola gergalità che dominava la vita interna del Comitato Romano, come d’altronde aveva cura di preservare, nella sostanza degli atti politici, una sua identità politica nel complicato articolarsi delle correnti e dei gruppi democristiani.

Dunque, con questa sua originalità di espressione e posizionamento, La Morgia attraversa per lungo tratto il mondo andreottiano romano. Tuttavia, passaggio dopo passaggio, all’apice del suo impegno amministrativo in qualità di Presidente della Provincia, matura il convincimento di dover sostenere il cambiamento predicato e voluto da Aldo Moro. Per questo nel congresso del 1976 voterà a favore di Benigno Zaccagnini, il segretario del “rinnovamento” (interno) e del “confronto” (con il Pci). 

È il gesto che conclude sostanzialmente una lunga carriera politica, anche se l’addio alla politica attiva avverrà soltanto nel 1981. Dopo seguirà un’altra stagione di vita, con un silenzio prolungato fino agli ultimi giorni, senza prebende e senza onori, a riprova di una disciplina morale che ha forgiato nell’intimo una generazione di democratici cristiani. In fondo è lasciato questa terra come un piccolo patriarca, se solo si pensa alla sua famiglia allargata, con “eredi” destinati ad incarichi prestigiosi nell’amministrazione locale e in Parlamento, ma anche con l’arrabbiato censore del congresso di Roma del 1946, che nel tempo sarebbe diventato il massimo funzionario di Piazza del Gesù, ovvero suo cognato Orlando Milana.

Se ne è andato in punta di piedi, senza temere la solitudine, con levità e contegno. Penso gli si debba un saluto rispettoso e sincero. L’umiltà non offusca le doti di un uomo, in specie di un uomo politico, bensì le rafforza ed esalta. La Morgia merita di essere, anche per questo, tra le figure più degne della esperienza democristiana di Roma.