Il battesimo del Circolo Giacomo Matteotti, nuovo luogo di confronto dei riformisti dentro e fuori del Pd, pone subito l’interrogativo sulla consistenza dell’iniziativa milanese. La prima impressione, infatti, è di una certa vaghezza di obiettivi. Ferma restando la volontà di costruire occasioni di confronto, evidentemente a motivo della ridotta possibilità di farlo tra le ristrette mura del Nazareno, manca all’appello quella che potremmo definire la connotazione strategica. Non si capisce se i promotori puntino a smuovere le acque per correggere la politica della Schlein o per andare oltre l’esperienza del PD.
Non aiutano al riguardo le parole di Lorenzo Guerini, benché improntate a sano pragmatismo. «Sono dentro questa iniziativa […] perché le idee circolino. È più facile farlo a Milano rispetto ad altre realtà e dobbiamo pensare a questa iniziativa come qualcosa capace di produrne di analoghe in altre parti d’Italia, con un messaggio che parte da qua […] C’è bisogno di riforme nel nostro paese e credo che se non c’è un mondo progressista che si intesta la battaglia delle riforme non possiamo pensare di lasciarla ad altri». Bene, e allora? Sembra che il metodo sopravanzi il merito della questione.
Bisogna spingere più a fondo l’analisi sul “che fare”. La radicalizzazione del PD non è un dato accidentale, passibile di aggiustamenti a seconda delle circostanze e per effetto della tenuta dell’area riformista; bensì costituisce un fattore strutturale che segna ormai la natura e la forma di un’opposizione votata all’oltranzismo.
La scelta della Schlein rispecchia il modello di una sinistra un po’ wokista (alla Ocasio-Cortez) un po’ operaista (alla Landini). Da ciò deriva l’idea che solo un’alternativa frontale, osteggiante in blocco l’attuale maggioranza di governo, possa giovare alla espansione dei consensi specialmente con il ritorno alle urne di un popolo disilluso dalle mene governiste del “vecchio” PD. Ecco pertanto che si materializza l’abbandono del partito unitario dei riformisti, con l’ambizione di una terza via social-riformista e popolare, non già l’articolazione – sempre possibile – di una proposta comunque ancorata a un progetto fondativo. La Schlein rompe, anzi ha rotto, la continuità: la scelta referenderia contro il Jobs Act ne è la riprova più vivida.
In questo quadro, il ruolo dei riformisti è destinato a scemare man mano che prosegue e si consolida – e come può essere altrimenti con l’approssimarsi delle elezioni? – l’asse tra PD AVS e M5S. Più ancora, ad esser franchi, si presenta disperata l’impresa degli ex popolari: ogni giorno che passa la loro specificità, mancando del necessario respiro politico e organizzativo, si riduce a lotta di sopravvivenza. Magari a rimorchio – absit iniura verbis – del drappello socialista del Circolo Matteotti.
È questo il futuro che si prospetta, questa la speranza che vince o dovrebbe vincere il rischio della marginalità? La storia del cattolicesimo politico – da Murri a Sturzo, da De Gasperi a Moro – è stata riformatrice non per imitazione, ma per convinzione e postura: ha saputo unire libertà e giustizia sociale, autonomia dei corpi intermedi e centralità del lavoro, senza mai scivolare nel dirigismo statalista o nel malthusianesimo tecnocratico. Oggi, di fronte alla “involuzione radicale” del PD e alla necessità di rilanciare un’area politico-culturale riformista, i cattolici democratici non possono semplicemente “esserci”. Devono ritrovarsi.