La ricerca di un nuovo equilibrio politico

Un’analisi delle sfide che il centro-sinistra deve affrontare. Spetta anzitutto al Pd allargare lo scenario, con intelligenza e senza velleitarismi. La linea dell’intransigentismo identitario scalda i cuori ma porta alla sconfitta.

Il tema delle alleanze era un classico della Prima Repubblica. Con l’avvento del sistema maggioritario, nella Seconda (peraltro una scansione della pubblicistica che non ho mai apprezzato, anche perché non corrispondente alla realtà istituzionale), i cantori del bipolarismo ne avevano immaginato la scomparsa definitiva.

E invece eccolo qui, ancora presente e tutt’altro che superato. A conferma che una realtà sociale e politica plurale non può (e non deve) essere ingabbiata e compressa per decreto. Così come i corsi d’acqua tombati a un certo momento riemergono e si riprendono il loro tratto originario, la questione delle alleanze è riesplosa in tutta la sua importanza sia a sinistra sia a destra.

A destra ogni partito ovviamente cerca di allargare il proprio spazio ma nei momenti topici (le elezioni) la coalizione regge e si presenta unitariamente, superando o comunque gestendo le rivalità interne. Con ottimi risultati, come si sta vedendo di questi tempi. Quando la mediazione interna non riesce, come è accaduto in Sardegna, la sconfitta incombe e arriva puntuale.

A sinistra le cose sono molto più complicate. E certamente esiste una più forte propensione alla cura del dettaglio, essenziale agli occhi (e agli interessi) del ceto politico ma invisibile a quelli degli elettori ragion per cui le divisioni che ne derivano conducono a frequenti sconfitte che avrebbero potuto essere evitate, come è accaduto ora in Liguria.

Però da quelle parti c’è un altro problema, assai più rilevante e decisivo: l’alleanza è sostanzialmente minoritaria nel Paese – tranne che in alcune, poche, regioni – e quindi necessita di un allargamento non meramente formale bensì sostanziale, effettivo, verso il centro, verso quell’elettorato “moderato” che diffida istintivamente delle formazioni di sinistra più radicali o comunque meno inclini a una declinazione riformista dei valori costitutivi della Sinistra. Moderati che possono guardare a sinistra perché amano la “moderazione” nelle scelte della politica, la possibilità della mediazione in luogo degli eccessi dell’assolutismo ideologico o para-ideologico che si esprime con sempre maggior frequenza sui social o negli inguardabili talk show televisivi.

La “moderazione” non deve essere confusa col “moderatismo”, che invece appartiene legittimamente al campo del centro-destra ove oggi è a sua volta minoritario a fronte del predominio di una cultura fortemente conservatrice quando non reazionaria.

Come si ricorderà, alla fine del secolo scorso e agli inizi del nuovo l’Ulivo guidato da Romano Prodi – una personalità con una precisa appartenenza culturale non però riconducibile immediatamente ad uno specifico partito – riuscì per la prima volta a unire centro moderato e sinistra riformista creando così una alleanza organica capace di attrarre a sé anche parte (ma non tutta) della sinistra più radicale e di giocarsi con efficacia la partita elettorale. Vincendo o perdendo, ma comunque giocandosela.

Il Partito Democratico fondato nel 2007 e inizialmente guidato da Walter Veltroni fu l’evoluzione conseguente di quella esperienza, con esiti però inferiori alle attese che condussero attraverso varie vicissitudini alla costruzione di un partito alquanto diverso da quello originariamente immaginato, forse al tempo anche con qualche velleità o magari – è bello il pensarlo – con una romantica volontà sognatrice.

Oggi il Pd espressione di una generazione più giovane rispetto a quella dei fondatori  rivendica una propria maggior chiarezza identitaria che colloca senza riserve nella sinistra dei diritti, che vengono enfatizzati molto più dei doveri che pure una forza di governo o che ambisce a essere tale dovrebbe esprimere, anche per distinguersi dalla sottocultura delle promesse elettorali irrealizzabili che impera a destra da sempre e che infatti alla prova di Palazzo Chigi Giorgia Meloni (e Giancarlo Giorgetti) hanno lasciato ai margini con grande scorno di Matteo Salvini.

Ebbene, il punto è che proprio questa più rigorosa identità (che non è quella fondativa del Pd, peraltro, essendo quest’ultimo sorto con l’obiettivo della “vocazione maggioritaria”, ovvero proprio dell’incontro, la famosa eliminazione del trattino, fra centro e sinistra) se da un lato consente a quel partito un sicuro attracco elettorale oscillante intorno al 25% (un po’ più o un po’ meno a seconda dei luoghi e dei momenti) dall’altro gli impedisce di costruire una reale alternativa alla coalizione elettorale oggi al potere.

Perché immaginare di raggiungere la maggioranza con un Pd siffatto, con i 5 Stelle in caduta libera dopo la scomunica di Grillo, con la sinistra ideologica del duo Fratoianni-Bonelli è pura illusione. E le probabili prossime vittorie in Emilia e Umbria (qui non così scontata in verità) non cambieranno ilquadro, a meno che non ci si voglia continuare a illudere nascondendosi la realtà.

Il Partito Democratico ha allora l’onere e il dovere di allargare lo scenario, con intelligenza e   senza velleitarismi. Naturalmente se l’obiettivo è davvero quello dichiarato, ovvero una alternativa di governo destinata a adottare politiche sociali ed economiche più eque. Con la giusta attenzione alla conservazione dell’ambiente e al riassetto di un territorio troppo spesso depravato e offeso.

È questa la battaglia che i timorosi e timidi riformisti dem dovrebbero innescare nel loro partito. A fronte di livelli di astensionismo elettorale che fotografano non solo il disincanto di larga parte della popolazione (e questo è un serio problema per la tenuta della democrazia sul quale non si può più rinviare una riflessione approfondita) ma pure l’assenza di una proposta politica diversa da quella offerta dal bipolarismo muscolare proposto oggi via social media dai protagonisti attuali della contesa politica, è indispensabile riuscire a coinvolgere almeno una parte di quei cittadini che rifiutano questa contesa fra opposti priva di possibili mediazioni. E che peraltro sarebbero anche interessati a una politica più attenta ad esplicitare con scelte legislative adeguate e coerenti contenuti evidenti di solidarismo sociale.

Per vincere occorre, con umiltà e capacità, saper sottrarre consensi elettorali alla coalizione avversaria. Voti che valgono doppio: uno in più di qui, uno in meno di là. Questo dovrebbe essere il compito di un nuovo centro-sinistra, pragmatico e determinato. Viceversa la linea dell’intransigentismo identitario salverà la coscienza di qualche anima bella a sinistra ma consegnerà l’Italia ad un lungo predominio della Destra nazionalista e conservatrice.