Il discorso sulle prospettive del cattolicesimo democratico conosce arricchimenti continui, gravidi di aspettative e sollecitazioni, ma si arresta sulla soglia della possibile formazione di un partito nuovo. Finché si rimane sul terreno delle valutazioni generiche, pare raccogliersi un largo consenso; ma quando si entra nel vivo dell’argomento – un partito di che tipo, per fare cosa e con quali alleanze? – allora insorgono le vere difficoltà. E riemerge l’obiezione sulla legittimità stessa del partito d’ispirazione cristiana. Per essa la fine della Dc non ha rappresentato solo la rottura di un’esperienza politica, bensì la fine di un ciclo storico improntato a una ecclesiologia e quindi a una teologia politica che il rinnovamento postconciliare si era incaricato di superare.
Un cambio di paradigma giunge a maturazione nel tempo presente, sicché l’impegno politico del cristiano non può che pensarsi al di fuori del canone adottato nel Novecento. Occorre tenere presente una nuova connessione fondamentale. In sintesi, come la testimonianza di fede deve immergersi nel contesto della società, rifuggendo da qualsiasi integralismo, per riconoscere e valorizzare in questa età della secolarizzazione il residuo cristiano, ancorché anonimo; così pure l’analoga e conseguente testimonianza politica, dispiegata sul terreno della laicità, risulta intanto fedele alla missione che la rende espressiva dell’ansia di libertà e di giustizia presente nel mondo, in quanto si fa lievito di una proposta che vale per la sua adeguatezza ai bisogni dell’umanità, non per il privilegio legato a una speranza ultramondana. Ecco allora che per questa nuova via maestra, indirizzata al traguardo di una politica davvero umana, ci si lascia alla spalle la memoria del partito d’ispirazione cristiana.
Cosa significa tutto questo? Alla resa dei conti ci si avvita nella spirale dell’ininfluenza per la inevitabile contrazione nella logica del minoritarismo. Quel che sopravvive della tradizione è una sporadicità di casi esemplari, un ritaglio di storie al di fuori della storia, solo uno stralcio di quanto addiviene alla soddisfazione di essere oltre, per sentirsi capaci di radicalità nel pensiero e nell’azione. L’attitudine a farsi carico della complessità, quella “complexio oppositorum” che Carl Schmitt ergeva a qualità del cattolicesimo, è la squama di cui liberarsi. La mediazione in sé, quindi la categoria di “centro” che più ne interpreta il valore e la funzione, incorpora la negatività. È il nuovo peccato della politica.
La distorsione ci appare evidente, ma seguiamo ancora l’invito alla decostruzione di un modello che aveva il suo piedistallo nell’idea di “riconquista cristiana” della società moderna. Dobbiamo tener conto, in ogni caso, che si trattava di un modello destinato ad evoluzioni di grande portata proprio con l’ingresso sulla scena pubblica europea, all’alba del Novecento, dei movimenti di matrice democratico cristiana. Mercé loro, in Italia e altrove si renderà possibile nel secondo dopoguerra una inedita e prolungata esperienza di governo. Ebbene, anche volendo procedere in questo modo, accettando perciò le conseguenze di una cesura storica con quel tempo e quelle strutture concettuali, resta comunque la necessità di una risposta all’attualissima questione che riconsegna alle società occidentali una politica debole per mancanza di spinta ideale, e dunque di moralità.
In effetti, la crisi odierna della democrazia, provenendo dall’illusione, dopo la caduta del comunismo, di un liberalismo senza più alternative – quando invece le alternative, con lentezza e ferocia, si sono poi riprodotte sotto forma di populismi e sovranismi – e senza più equilibri riconosciuti, porta alla luce un vasto sottofondo d’insofferenza, sfociante anche nell’astensionismo, per la riduzione della politica a tecnica di gestione e cassa di risonanza di linguaggi estremizzati.
Anteo riprendeva forza toccando terra, chissà se vale come metafora per la dinamica del cattolicesimo democratico. Non a caso ci si domanda cosa fare per uscire dalla frustrazione a cui si è obbligati allorché la tradizione diventa un inutile fardello. A dispetto di tale congettura, Baget Bozzo scriveva a metà degli anni ‘70 che “niente è senza tradizione, nemmeno la rivoluzione”. Certo, l’interrogativo non riguarda l’eventualità di un “ritorno alla Dc”, essendo un azzardo immaginarlo anche sotto il profilo vagamente teorico, come abbiamo constatato; ma riguarda piuttosto la suggestione di un nuovo soggetto democratico, capace di reinventare una politica di “idee ricostruttive”, come fecero i democristiani nel biennio cruciale 1943-1945. Dunque, non bisogna ripetere la soluzione, quella relativa a una determinata forma partito in funzione di un’altrettanto determinata condizione politica, ma rielaborare daccapo il problema.
E qual è oggi il contributo della coscienza cristiana alla promozione del bene comune? Come può, direbbe De Gasperi, il “soffio del cristianesimo” aiutare a condurre la giusta battaglia per la crescita della società, in contrasto con il risorgente “capitalismo politico” dei magnati globali? Ed infine come ridare slancio a una visione dell’avvenire, senza cadere nell’utopismo? La questione del “centro” non si pone come rimaneggiamento del vecchio, bensì come passaggio a una fase diversa nella quale abbia spazio l’ipotesi di un partito a “evocazione cristiana”; e cioè, un partito laico che prescinda sì da un vincolo di appartenenza, pur sotto la sigla dell’ispirazione cristiana, ma che non impedisca per questo, anzi ne accolga lo spirito, lo svolgimento di un’idea cristiana di progresso, solidarietà e dignità umana. Evocazione è la parola nuova?
Pubblicato su DemocraticiCristiani (numero unico – anno 2024). Per accedere alla rivista clicca qui www.democraticicristiani.com/Democraticicristiani2024.pdf