La rivoluzione d’Ottobre e la guerra interetnica del 1918: le radici della crisi russo-ucraina.

 

Conoscere un passato di rivalità e di conflitti aiuta a comprendere lo scontro militare odierno. Il retaggio storico-politico non è acqua, e in molti casi si tramuta in controversia ancestrale, tramandata dagli avi e dalle loro lotte per la rivendicazione dei propri ideali.

Marco Giuliani 

 

Sull’onda della Rivoluzione russa, iniziata nel febbraio del 1917 e conclusasi con successo il 25 ottobre dello stesso anno (date del calendario giuliano), la successiva e fulminea presa del potere da parte dei bolscevichi determinò l’uscita della Russia dalla Grande Guerra. Seguì l’instaurazione di un’autocrazia basata sulla statizzazione di tutte le attività produttive che fu favorita dall’appoggio delle forze armate e dalla successiva costituzione dell’Armata rossa.

 

Non serve andare troppo indietro nel tempo per capire che la frammentazione geopolitica e interetnica russa – di fatto già esistente (almeno) dal Seicento – avrebbe a lungo andare provocato tutta una serie di sommovimenti interni e scontri di natura social-popolare. Certo va registrato che la fine del primo conflitto mondiale fu contrassegnata dall’aggravarsi di una condizione già di per sé difficile, ma tendenzialmente destinata ad acuirsi negli anni a venire. Quanti sanno che la nascita della Russia rivoluzionaria, futura Unione Sovietica, coincise con la guerra militare contro gli stessi russi operata dai governanti polacchi insoddisfatti dagli accordi di Versailles? Nei particolari, il tentativo di dare luogo alla ricostruzione della “grande Polonia” risalente a duecento anni prima, si tramutò in un duro scontro alla fine del quale vennero soddisfatte le vecchie aspirazioni di Varsavia: l’acquisizione di ampie zone della Bielorussia e dell’Ucraina. Come sappiamo oggi, ne abbiamo ben donde, non si trattò affatto di una transizione democratica, bensì di una fase di stallo violenta e passibile (in modo sin troppo ovvio) di successive modificazioni ed evoluzioni. Anche tra le più tragiche.

 

La costituzione della nuova Russia, futura URSS, prevedeva già allora che lo stato nato dalle ceneri della Rivoluzione avesse basi federali; la prospettiva a medio termine era infatti quella di erigere una grande repubblica socialista di respiro internazionale fondata su più entità territoriali che rispettasse l’autonomia di ogni minoranza etnica. Artefice dell’operazione, Lev Trotzkij. Ma era altresì prevedibile che dall’unione delle numerose province dell’ex Impero zarista – tra cui l’Azerbaijan, la Georgia, l’Armenia e le stesse Bielorussia e Ucraina – sarebbe scaturita una più che complessa e fragile struttura istituzionale. Da questa soluzione politica, di cui divennero parte integrante anche le sterminate lande della Siberia, la guerra scoppiata nel 1918 tra i nazionalisti ucraini e il movimento bolscevico filorusso rappresentava solo l’inizio di una disputa politica, territoriale ed etnico-religiosa destinata a prolungarsi nel tempo. Dalla crisi interregionale di cui sopra, la frammentazione geopolitica si infittì inevitabilmente; ne derivò la ulteriore scissione dei movimenti di origine ucraina, schierati da una parte a favore dell’annessione alla Russia e dall’altra a favore del mantenimento dell’indipendenza.

 

Il retaggio storico-politico non è acqua, e in molti casi si tramuta in controversia ancestrale, tramandata dagli avi e dalle loro lotte per la rivendicazione dei propri ideali. Quello che si attuò tra il ’20 e il ’22 null’altro fu se non l’accorpamento delle tante singole repubbliche a quella russa, la più grande, la quale varò, grazie al ruolo svolto dai soviet, la carta dell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche. Un gigante fragile, controverso, caratterizzato da spinte centrifughe interne mai sopite e mai sedate, che di fatto sarebbe imploso poco più di mezzo secolo dopo dando luogo a una nuova, difficile e tormentata fase di cambiamenti e di riforme. Così, quel soggetto fuoriuscito nel 1924 a seguito della «Dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato» si trasformò nuovamente, parliamo del 1991, in un mosaico di stati e staterelli retti ognuno da carte statutarie deboli e traballanti, parimenti al loro sistema economico. Proprio per via delle molteplici posizioni politiche e delle plurime appartenenze, fluttuanti da secoli, il calvario delle popolazioni più povere, quelle operaie e contadine, si sarebbe protratto ancora. Talvolta con la promessa (disillusa) da parte della comunità internazionale di un facile arricchimento e del raggiungimento del benessere. Sino a indurre alcune di queste entità – è il caso della nuova Ucraina – ad avvicinarsi alla Nato a seguito del putsch operato nel 2014 ai danni del governo retto dal primo ministro filorusso (ma di nazionalità ucraina) Janukovyč.

 

La reazione di Mosca non si fece attendere, e anche questa provocò lotte armate per accaparrarsi i residui poteri locali dei territori russofoni, scontri tra diverse etnìe (non ultimi, quelli innominabili del Donbass, che lasciarono sul campo 14 mila morti) e l’insediamento di giunte corrotte. Il tutto caratterizzato dal tira e molla tra i fautori dell’avvicinamento alla UE e i fedelissimi della nuova Federazione russa. Ed ecco la drammatica escalation. Una lacerazione (a oggi apparentemente insanabile) che si allargherà a macchia d’olio, sino a coinvolgere i vertici politici e gli interessi delle più grandi potenze, comprese quelle occidentali. Condizione, questa, che terrà il mondo col fiato sospeso.

 

Tutto ciò si sarebbe potuto evitare? Assolutamente si, magari a colpi di diplomazia e di strategia politica. Anche dei più scorretti e utilitaristi, se volete. Ora è necessario intraprendere un nuovo corso, una “nuova via”, da entrambe le parti in rotta. Possibilmente senza bombe.