Mentre i governatori del Maryland e della Virginia si offrono di accogliere più rifugiati, la Chiesa cattolica americana, fin dalla creazione di un programma di reinsediamento dei rifugiati nel 2006, ha lavorato con il governo per consentire che i 73.000 afgani, titolari di un permesso speciale SIV, assieme alle loro famiglie venissero correttamente accolti. Ed in queste ore frenetiche è quello che sta facendo Catholic Charities in Virginia, man mano che arrivano aerei carichi di profughi in una base militare a Fort Lee, che vengono trasferiti nell’area di Arlington, dove si trovano già altri rifugiati, da lungo tempo, provenienti dall’Afghanistan.
Maddalena Maltese
Non c’è un metodo perfetto o imperfetto per perdere una guerra, ma il modo in cui gli Stati Uniti hanno perso l’Afghanistan è sotto il giudizio non solo degli americani ma del mondo: un fallimento. Gli Usa sarebbero dunque dovuti restare in Afghanistan, in uno status quo a tempo indeterminato, vista l’impossibilità di una vittoria militare? Il 73% degli americani è netto a questo riguardo: Kabul andava lasciata. Ma l’esecuzione di questo mandato è stata “imperfetta”, ha confessato l’addetto stampa del Pentagono Paul Kirby. Le esercitazioni a tavolino studiate a Washington non prevedevano una resa senza battaglia, né le centinaia di afghani disperati che si attaccavano all’aereo militare sulla pista di decollo, per poi precipitare al suolo quando il C17 si è levato in volo. Anche loro in caduta libera come i corpi delle Torri Gemelle: immagini strazianti difficili da credere a poco meno di un mese dal dal 20° anniversario dell’11 settembre, una data che lega indissolubilmente gli Usa all’Afghanistan.
Se il presidente Joe Biden voleva riportare nello Studio Ovale competenza e strategia, le immagini di Kabul, Herat, Kandahar suggeriscono ben altro. La stampa americana non risparmia critiche al vetriolo e non solo a lui, ma a tutti i commander in chief che hanno nutrito l’opinione pubblica di un falso ottimismo sui progressi “stabili” e “deliberati” dell’America in Afghanistan, quando già nel 2019, i cosiddetti “Afghanistan Papers” pubblicati dal Washington Post li avevano ampiamente smentiti. Un ritiro così caotico è il ritratto di un’ennesima guerra afflitta da lacune nell’intelligence, nella conoscenza del popolo, della storia, della sua strategia di accordi per quieto vivere. Gli Stati Uniti sul terreno afgano lasciano 2.000 miliardi di dollari, le vite di 2.448 tra militari e appaltatori, le ferite di 24.000 reduci, le vite di 47.000 civili e il servizio di 800.000 soldati.
Negli Usa questa è l’ora delle colpe democratiche e repubblicane, afghane e talebane. È l’ora della colpa per le Nazioni Unite, pressoché assenti e che si spera impediscano una possibile guerra civile; è l’ora della colpa per l’Unione europea senza strategia; del Pakistan condiscendente alla violenza; della Russia tornata amica. Colpa di isolazionisti e di generali; di falchi e false colombe. CNN, NBC, Fox news, New York Times; Los Angeles Times, PBS: non c’è canale o mezzo stampa che non sieda sul banco dell’accusa.
“Ma in questa guerra condotta a nome del popolo degli Stati Uniti, quanto gli statunitensi sono stati toccati in modo tangibile, se non per quelli che hanno avuto una persona della famiglia nella campagna in Afghanistan?” si domanda Matt Malone, direttore di America, la rivista dei gesuiti. “Negli ultimi anni chi di noi ha perso una sola notte di sonno preoccupandosi di Kabul? O ancora in questi venti anni quanto storie sull’Afghanistan pubblicate dai media sono state ignorate perché eravamo frettolosi, stanchi, annoiati?”, continua il gesuita, che dichiara “inconcepibile” inviare altri giovani americani in una guerra ventennale, “mentre tutti noi godiamo il lusso di non doverci preoccupare”. Per Malone la vera domanda da porsi non è cosa hanno fatto gli Usa negli ultimi 20 anni in Afghanistan, ma “cosa io e te non siamo riusciti a fare”.
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