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mercoledì, Febbraio 12, 2025
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La svolta di Franceschini: perché non andare fino in fondo?

Secondo l’ex ministro i cattolici democratici, memori di Zaccagnini e Granelli - ma quest’ultimo, contrario persino allo scioglimento del Ppi, che c’entra? - non hanno motivo di archiviare il loro impegno nel Pd.

Franceschini nei momenti cruciali offre di sé l’aspetto più sorprendente. Nessuno avrebbe immaginato, ad esempio, che il suo sostegno alle primarie potesse andare ad Elly Schlein. Più di altri riesce a cogliere l’urgenza e la misura di un revirement politico. All’obiezione di chi rileva in questa propensione un fondo di insensibilità o peggio d’incoerenza, giova ricordare il debito accumulato dall’ex ministro nel suo formarsi come quadro e dirigente dentro l’esperienza della sinistra dc degli anni ‘80 e ‘90. In quel contesto, decisivo per la crescita di un giovane impegnato nel partito, la modernità della politica passava per il rifiuto delle ideologie. Tanto è valso quel rifiuto, in origine pensato come uscita dal dogmatismo comunista e dall’integralismo cattolico, che niente più ha impedito di farne poi l’innesco di un pragmatismo adattivo. La generazione di Franceschini è quella che si libera dei miti – il ‘68 non dice più nulla – e prende confidenza con le armi del realismo.

Ed ecco il messaggio, con la parola chiave appena evocata,  che campeggia nell’intervista a Repubblica: “Serve realismo”, dice Franceschini. Un sano realismo, in verità, che porta al cuore della questione: “I partiti che formano la possibile alternativa alla destra sono diversi e lo resteranno. È inutile fingere che si possa fare un’operazione come fu quella dell’Ulivo. L’Ulivo non tornerà, da quella fusione è già nato il Pd. E nemmeno l’Unione del secondo Prodi, con le sue 300 pagine di programma assemblato a tavolino prima delle elezioni. I partiti di opposizione vadano al voto ognuno per conto suo, valorizzando le proprie proposte e l’aspetto proporzionale della legge elettorale. È sufficiente stringere un accordo sul terzo dei seggi che si assegnano con i collegi uninominali per battere i candidati della destra”.

È una proposta convincente? A sinistra se ne teme la spericolatezza, specie per quelle aperture al centro che investono o potrebbero investire addirittura Forza Italia. Ebbene, Franceschini invita a cambiare registro e poco importa se ciò contrasta con le formule ossidate del recente passato. Tuttavia, in questa nuova cornice nemmeno lui ha il coraggio di rimettere in discussione l’esistenza del Pd, ovvero del partito, il suo, che nasce e opera proprio nella logica del bipolarismo della seconda repubblica. Non si capisce perché il discorso debba rimanere tronco, con un cambiamento “di sistema” adombrato come inevitabile e che però, in aperta contraddizione, si arresta subito appresso di fronte agli attori materiali di tale “sistema”. Secondo Franceschini, infatti, i cattolici democratici, memori di Zaccagnini e Granelli – però quest’ultimo, avendo persino resistito allo scioglimento del Ppi, che c’entra? – non hanno motivo di archiviare il loro impegno nel Pd.

È una tesi discutibile. I processi, quando cambia tutto, non sono regolabili a piacere. Si apre una fase nuova e difficilmente il “partito unico dei riformisti” (Pd) potrà evitarne gli effetti, specie per quel che riguarda la rianimazione di una politica bisognosa di ideali e di valori, quindi rispettosa delle identità. Con misura, ovviamente. Il concetto del limite, fondamento filosofico del cattolicesimo politico, potrà fare argine a controspinte eccessive. La speranza è che entri più nel vivo il discorso sulla formazione di un partito-cerniera, forte della sua visione, in grado di garantire progresso e solidarietà.