“C’erano pochi telefoni, in quella Roma piccola e stravolta del 1946. Da poco i bombardamenti erano cessati e l’Italia era stata liberata. La paura era finita e la vita tornava a sembrare luminosa. Faticosa, ma luminosa”.

L’ultimo libro di Walter Veltroni (“Labirinto italiano” edito da Solferino) è un viaggio nella memoria del Paese, che inizia da un vecchio elenco telefonico della Roma postbellica. E’ un documento storico che descrive una città completamente diversa. Era una capitale più piccola, non ancora segnata dall’immigrazione impetuosa né da avventure urbanistiche, con quartieri nati alla rinfusa e periferie anonime, senza lo straccio di un piano regolatore. O meglio, con la pura logica del profitto e della speculazione edilizia che impedisce di immaginare un piano regolatore. Era anche una città ben amministrata, senza particolari lacune nei servizi e nei trasporti pubblici. Furono infatti le prime giunte capitoline di centrosinistra a smantellare l’efficiente servizio tramviario, di cui oggi sopravvivono poche tratte (e per lo più marginali nel paesaggio urbano).

Quello che colpisce, sfogliando idealmente le pagine del prezioso elenco telefonico, è trovare molti protagonisti della storia politica e culturale del Novecento italiano, da Andreotti a Fellini, da Di Vittorio a Terracini, da Ugo La Malfa a Vittorio De Sica. Non c’erano particolari remore a rendere pubblici i propri recapiti privati. Certamente non esisteva ancora una legge sulla privacy, ma si pensava che la democrazia e la libertà (da poco riconquistate) non sarebbero state più violate da nessuno. L’Assemblea Costituente aveva proprio il compito di dare al Paese una Carta Costituzionale attraverso un compromesso (questo sì, al rialzo) tra le varie forze politiche dell’epoca: cattolici, liberali, repubblicani, comunisti, socialisti, azionisti. Pochi anni dopo (come viene raccontato nel libro) si capisce che ciò è un abbaglio, una pericolosa illusione. La stagione degli attentati e delle stragi porterà anche alla cancellazione dagli elenchi telefonici dei nomi dei VIP (e non era ancora giunta l’epoca della sudditanza culturale nei confronti della lingua inglese).  Il “labirinto italiano” è popolato di storie degli anni di piombo (Carlo Castellano, Luigi Calabresi, Mario Amato) ed altre più allegre (“la partita del secolo” Italia-Germania 1970-1982, la nazionale di Julio Velasco, il Novecento di Bertolucci). E’ un racconto di protagonisti le cui vite, eroiche o normali, racchiudono il senso storico dei decenni che abbiamo attraversato. Ma è anche il libro delle emozioni, dei film, delle canzoni, degli entusiasmi e dei dolori che hanno segnato le generazioni dal dopoguerra alla crisi economica fino alla “seconda ondata” del Covid in cui siamo ancora totalmente immersi. E chissà quando davvero finirà “l’inverno del nostro scontento”.

A giudizio di chi scrive, manca nel libro una serie di interviste realizzate da Veltroni ad alcuni protagonisti della cosiddetta Prima Repubblica, pubblicate recentemente sul “Corriere della Sera”. Tra queste, una delle più significative è quella a Fabiano Fabiani (giornalista, dirigente pubblico e privato, tra Rai e Iri). In un passaggio dell’intervista, Fabiani ricorda la chiusura della campagna elettorale Dc nel 1953 a Roma. “Sangiorgi era un antifascista e questo fu il mio primo incontro con una persona culturalmente preparata e antifascista. Ricordo anche un piccolo episodio: il comizio finale di De Gasperi fu a piazza del Popolo. In fondo alla scaletta di accesso al palco De Gasperi lo vide, gli venne incontro e gli chiese come andavano le cose. Sangiorgi gli rispose: “Stavano andando bene, poi negli ultimi giorni ci sono stati degli interventi in denaro” e De Gasperi replicò: “Purtroppo questa brutta abitudine è molto diffusa…”.