…Donald Trump non arriva da Marte. Ha ampiamente vinto le elezioni e il suo partito, i Repubblicani del Grand Old Party, s’è imposto nei due rami del Congresso a Washington (collocato a Capitol Hill, che richiama alla memoria l’assalto del 6 gennaio 2021 portato al parlamento dai suoi sostenitori, con la benedizione di Trump allora sconfitto da Joe Biden). Trump si colloca in un rapporto di causa-effetto con il populismo e il nazionalismo (accettando queste definizioni, senza soffermarci su tutte le precisazioni e le sfumature che si renderebbero doverose) che attraversano una buona parte delle democrazie occidentali, e segnatamente l’Unione europea. Un populismo – che per lo più si accompagna al nazionalismo – prodotto da una pseudo cultura imperante, dal mainstream dominante, dall’assertività tipica dei social spacciati per spazi di libero confronto, dall’individualismo diffuso, dal venir meno del senso di comunità, dall’indebolimento della solidarietà internazionale…
Populismo figlio delle paure che ci attanagliano, alcune delle quali possono essere considerate un’eredità dei fenomeni generati dalla globalizzazione, ma in altra parte sono seminate ad arte per interessi politici ed elettorali: basti pensare allo stigma, dall’acre sapore razzista, riversato sulle persone e sui popoli costretti a migrazioni forzate dovute a povertà, fame, guerre, cambiamenti climatici. È in atto un profondo cambiamento di mentalità, forse antropologico, che si riversa sul modo di intendere le relazioni interpersonali e sociali; la fatica di informarsi, sapere e dialogare viene volentieri bypassata; democrazia e partecipazione appaiono noiosi impicci delegabili al leader mediaticamente più affascinante. Una conferma giunge dal generale “svuotamento” dei partiti, divenuti per lo più macchine elettorali, e dalla volubilità dei corpi elettorali, dipendenti dai sondaggi, disposti a premiare non già lungimiranti e condivisi progetti politici di lungo respiro, bensì persuasivi affabulatori dalle promesse impossibili, che poi, puntualmente, non saranno mantenute.
I successi di Trump e di tanti suoi fan ed emuli europei (i cosiddetti “patrioti”), come l’ungherese Viktor Orban, la francese Marine Le Pen, l’olandese Geert Wilders, lo spagnolo Santiago Abascal, l’austriaco Herbert Kickl, oltre alla tedesca Alice Weidel, pongono profondi interrogativi che toccano la sfera della convivenza civile, il futuro stesso delle democrazie liberali come sono state intese finora, giungendo a mettere in discussione quel (oggi possiamo ben dire “fragile”) patrimonio di valori, norme e diritti fondamentali plasmati in Europa soprattutto a partire dal secondo dopoguerra.
C’è ancora tempo per evitare il peggio. Non si può rinunciare a pace, libertà, giustizia, eguaglianza. Probabilmente occorre agire su più piani: dell’educazione e della cultura, del contrasto alla disinformazione e alle fake news, del volontariato e dell’impegno pubblico, della difesa dei valori fissati nelle costituzioni democratiche, della partecipazione responsabile al voto e alla politica. La sfida è enorme eppure irrinunciabile.
Per leggere il testo integrale
https://rivistadialoghi.it/12025/primo-piano/europa-america-e-futuro-della-democrazia-nell’era-trump