L’articolo è uscito nell’edizione odierna de L’Osservatore Romano
di Paola Petrignani
La donna che ha conosciuto e che ci ha fatto conoscere l’America si spegneva il 18 agosto del 2009. Fernanda Pivano era un personaggio ben lontano da qualsiasi schema precostituito, distante anni luce da quella semplice e fin troppo scopiazzata immagine d’intellettuale borghese forte delle proprie sentenze e convinzioni, “alto” perché sorretto da un polveroso piedistallo libresco. No, la Nanda era molto di più. Traduttrice prima, saggista e giornalista poi, divenne ben presto un punto di riferimento culturale straordinario; la vera e propria icona della “controcultura” giovanile che schiere sempre più numerose di ragazzi ammiravano come se fosse l’incarnazione dei propri sogni nel cassetto.
Era l’America in Italia. Solo lei riuscì ad affondare come un coltello nel cuore pulsante della cultura letteraria d’oltreoceano, vivendola e comprendendola nel profondo, in prima persona, per poi risalire in superficie con traduzioni e resoconti inediti, vivi, che aspettavano solo lo scontro con gli editori italiani affinché quel patrimonio inestimabile venisse restituito nella forma più sincera e autentica possibile. Ciò che colpiva di questa donna erano la forza, lo spirito, e quella perpetua giovinezza di chi — fino all’ultimo — parlava di letteratura con la stessa passione di quando, a diciott’anni, conobbe per la prima volta i grandi scrittori americani; lei che non smise mai di credere che i versi dei poeti potessero fermare le bombe.
Hemingway, Whitman, Masters e Sherwood Anderson furono i primi a sconvolgerle il sangue; e l’Antologia di Spoon River la stregò a tal punto da determinare tutta la sua esperienza letteraria successiva, accompagnandola fin proprio al suo ultimo articolo. Questo perché l’Antologia (come anche le Foglie d’erba e Addio alle armi) era qualcosa di completamente diverso rispetto alla vuota e falsa prosa dell’Italia fascista, fin troppo imbevuta di eroismo e falsa epicità per essere anche solo digeribile. La vita non era fatta di eroi, ma di poveri diavoli; e proprio nella semplicità scarna dei versi di Masters, nel loro contenuto dismesso, rivolto ai piccoli fatti della vita, la ragazza “dalle belle trecce bionde” vide qualcosa di autentico, reale, vivo. La verità nuda e cruda era racchiusa in quei versi, e con essa la speranza di essere uomini, non solo marionette del sistema; ed ecco, allora, che dalla passione viscerale per quei versi si accese in lei il desiderio della traduzione, che subito le valse i primi contratti con Einaudi.
Da quel momento, la Pivano traduttrice non smetterà mai di scandagliare i testi degli scrittori americani e quel loro modo di scrivere così pragmatico e intenso, cercando di andare oltre la semplice ricerca di soluzioni linguistiche adeguate per poterne raggiungere le matrici umane e culturali.
Per farlo, bisognava tradurre per davvero, attraverso la comprensione delle ragioni e dei sogni di chi, quei versi, li scriveva. Era la ricerca di un contatto profondo a muovere la mente e le indagini della Pivano; un contatto che ben presto si tradusse in incontro e, come succedeva nella maggior parte dei casi, anche in amicizia. Perché la Nanda era anche questo: una confidente preziosa per tutti, soprattutto per quegli scrittori con i quali riusciva a strappare anche solo una breve conversazione. Quelle menti geniali la consideravano una loro pari, una confidente fidata che poteva comprendere appieno le radici profonde del loro operato; qualcuno che aveva «una buona testa per pensare» diceva Hemingway, il quale volle conoscere a tutti i costi la donna che rischiò la prigione per tradurre il suo A Farewell to Arms, e con il quale condivise un’amicizia durata tutta una vita.
Approdata in America nel 1956, riuscì ben presto a entrare in contatto con gli scrittori che sarebbero stati i pionieri della generazione Beat: Gregory Corso e Lawrence Ferlinghetti li incontrò alla libreria City Lights di San Francisco, dove i due erano di casa; e a loro si aggiungensero poi Kerouac — che con il suo On The Road aveva messo per iscritto il cromosoma della nuova generazione americana (e che fu lei la prima a riconoscere come tale, smuovendo mari e monti pur di renderlo noto in Italia) —, e Allen Ginsberg, il poeta-profeta che stravolge ogni canone e tabù negli anni della contestazione. Ma la traduttrice andò ancora più in profondità, scoprendo e riportando alla luce la poesia degli afroamericani e degli omosessuali — minoranze che ancora urlavano nel silenzio dell’indifferenza generale (un’apertura ancora difficile in America, per non dire totalmente estranea in Italia). E fu sempre lei a capire il senso fortemente letterario dei testi dei nuovi cantautori statunitensi, facendoci conoscere per prima un giovane Bob Dylan che suonava il folk con la chitarra elettrica.
Condividere quella cultura che così tanto riusciva a restituire la realtà nella sua forma più veritiera e dissacrante era diventata una vera e propria missione per la Pivano, perché quelle parole — quei colpi allo stomaco — potevano scrollare di dosso qualsiasi tipo di indifferenza. E tutto questo lo fece tenendo sempre a mente i giovani: la Nanda era convinta che fossero l’unica possibilità per un cambiamento necessario; l’unica speranza contro gli orrori della guerra. Questa convinzione non la perse mai, neanche dopo la disillusione successiva agli anni della contestazione; e nella vecchiaia, il pensiero dei giovani sognatori che aveva aiutato con il suo lavoro di divulgatrice le riempiva il cuore di una grande, meravigliosa, consolazione. Quei ragazzi che ancora la cercavano, che ancora venivano da lei con la luce negli occhi e qualche consiglio da chiederle, erano la prova che il proprio lavoro non fosse stato vano; che avesse lasciato «un piccolo segno, un piccolo seme».
E quel seme ha dato vita a un tesoro immenso, perché quel suo imperterrito lavoro di contatto e di comprensione ci ha avvicinato a un mondo complesso e ancora inesplorato, liberandolo da qualsiasi tipo di pregiudizio per regalarcelo così, a cuore aperto, attraverso traduzioni, saggi e resoconti che erano delle vere e proprie “lettere d’amore” (come lei stessa le definiva). Fernanda Pivano era un “mito”, e a dieci anni dalla sua scomparsa, quel “mito” sopravvive più forte che mai.