Leggo con interesse – su “Il Domani d’Italia” del 10 Aprile u.s. – la sintesi curata da Giampaolo Galli, sul tema del divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia (1981), dell’Osservatorio CPI di cui è principale referente il prof. Cottarelli.

Benchè l’intento di tale sintesi sia, esplicitamente, quello di confutare aspetti importanti di quello che sembra esser diventato un cavallo di battaglia del cosiddetto sovranismo italiano, molte delle considerazioni in essa contenute appaiono ragionevoli e condivisibili. E, proprio per questo, meritevoli di svariati approfondimenti.

Così, è giusto sottolineare il collegamento con la svolta del 1979, che non fu solo l’architettura del Sistema monetario europeo (il successore del cosiddetto Serpente, ormai defunto), ma soprattutto il logico collegamento con il G7 di Tokyo, dove venne abbattuto l’ultimo baluardo di Bretton Woods (1944): da quella data nessun Paese avrebbe potuto godere della solidarietà degli altri per riequilibrare la propria bilancia dei pagamenti (svalutazioni e rivalutazioni monetarie, prestiti a tassi non di mercato, ecc.). Quindi, ad esempio, chi avesse avuto un deficit commerciale, avrebbe dovuto attirare capitali (perciò questo mercato venne liberalizzato) dall’esterno, offrendo tassi di interesse invoglianti: così, i Paesi forti esportatori – non dovendo più rivalutare – si rafforzavano e quelli deboli si indebolivano: va da sè che questo modello poco solidaristico saltò poco dopo con la crisi dello SME stesso (Settembre 1992).

Orbene, alla fine degli anni ’70, l’Italia importava fonti energetiche per quasi il 25% del PIL (oggi il 3%) e si parlava di non rispetto del “vincolo estero” quando, date le esportazioni, le crescita tumultuosa del PIL (in questo eravamo i n.1 al mondo) portava i consumatori a scegliere più prodotti di importazione, sorretti da una spesa pubblica generosa e da retribuzioni in continua crescita.

Una delle ragioni della stretta sulla spesa pubblica (perché di questo si trattava, in buona sostanza) poteva essere giustificata dal fatto che bisognasse limitare le importazioni non necessarie, ovvero quelle agevolate dalla crescita della domanda effettiva.

Tuttavia, covava anche una rabbia contro la classe politica di allora, corrotta e clientelare, democristiana e socialista: gli ambienti benpensanti (dai liberali ai comunisti, dalla sinistra “politica” della stessa DC ai radicali di varia estrazione) pensarono di punire quella cultura spendaiola sottraendo alla classe politica della prima Repubblica, il potere più importante, quello di decidere (di far crescere) gli investimenti pubblici.

E’ anche vero che, così l’Italietta finanziaria del mattone piuttosto che del conto corrente o del materasso, si sdoganava verso i famosi “bot people” e che, con i più alti tassi di interesse, diventassimo – addirittura il benchmark mondiale – dell’allora in gran spolvero mercato obbligazionario dei titoli destinati agli emergenti investitori istituzionali, soprattutto americani.

Tuttavia, l’orizzonte temporale delle imprese si accorciò, diminuirono non solo gli investimenti pubblici, ma anche quelli privati perché si faceva meno fatica a comperare – con i profitti – titoli che rendevano il 7% una volta depurati dall’inflazione che combattere con mercati, lavoratori, sindacati, tasse e banche.

Fin da subito, Federico Caffè mi disse che si era trattato di un “errore gravissimo, da sottolineare due volte con la matita blu”: “Speriamo, aggiunse, che non buttino via il bambino con l’acqua sporca”. Sei anni dopo – due o tre giorni prima di scomparire – mi disse: ”Hanno buttato via il bambino con l’acqua sporca”. Con gli oltre trent’anni successivi di esperienza politica e soprattutto amministrativa, posso affermare che il bambino (vale a dire lo sviluppo economico) l’abbiamo buttato via, ma l’acqua sporca (la corruzione) ce la siamo tenuta…

E veniamo all’inflazione. E’ vero, come si dice nella sintesi esaminata, che essa rappresentava una tassa: ma ingiusta soprattutto dal punto di vista dei creditori non indicizzati. In realtà, il Paese degli anni ’70 – terrorizzato dall’inflazione – stava crescendo come mai nella sua storia recente e la nostra manifattura stava diventando la prima al mondo (forse allora non c’erano i sovranisti, ma la loro – ipotetica  – unica ricetta sarebbe stata dazi sulle importazioni e nessuno riteneva utile una cosa del genere).

E’ vero, quindi, che siamo stati fermati per ragioni soprattutto internazionali (ma non voglio spingermi oltre, in questa sede): di qui, oggi, l’argomento “sovranistico” di critica del divorzio e delle sue conseguenze: una posizione, quindi, di mera ricostruzione storica.

Ma cerchiamo di completare il presente ragionamento – se il lettore ha ancora la pazienza di andare avanti – con la dinamica della spesa pubblica dopo il fatidico divorzio.

Come hanno dimostrato – oltre ogni ragionevole dubbio – gli autorevolissimi studi del prof. Giuseppe Alvaro, la spesa per prestazioni, funzionamento istituzionale, ecc. (in termini di PIL, ovviamente) non è variata durante il decennio successivo; quella per investimenti è crollata (e così si è ottenuto il peggioramento della “qualità della spesa” stessa); quella invece per interessi è cresciuta in modalità esponenziale spingendo il debito pubblico a raddoppiare e superare il PIL.

Non aveva avuto ragione Caffè?

Ma, amici antisovranisti, ecco una mia previsione che vi rallegrerà: come la fine dell’economia della solidarietà, per dare spazio al liberismo più sfrenato, spiazzò i partiti liberali; come la caduta del muro di Berlino spiazzò i partiti anticomunisti moderati; così, l’attuale crisi della globalizzazione spiazzerà i sovranismi egoistici. E sapete perché? Perché si sta per aprire un’era contraria ai conflitti, dove il rispetto del vicino prevarrà sull’esigenza di imporre una volontà intransigente all’interno, dove la fine della mondializzazione selvaggia incoraggerà forme di localismo pacifico, reciproco e non aggressivo.