L’attivismo di Putin e l’ambiguità di XI Jinping: l’instabile partita d’Oriente.

La cosiddetta “amicizia senza limiti” fra Mosca e Pechino nasconde più di un’insidia per il Cremlino, della quale lo zar è perfettamente consapevole. E quindi cerca, come può, di mitigarla.

L’attività diplomatica di Vladimir Putin si è molto accentuata negli ultimi mesi con l’evidente obiettivo di aggirare quell’isolamento anche personale che l’Occidente gli ha creato intorno dopo l’avvio della guerra in Ucraina. È interessante osservare lo sforzo messo in atto nelle scorse settimane, concentrato nell’Asia orientale. Perché conferma – fra le righe, ovvero dietro la cortina fumogena della propaganda – quello che molti analisti sostengono e cioè che la cosiddetta “amicizia senza limiti” fra Mosca e Pechino nasconde più di un’insidia per il Cremlino, della quale lo zar è perfettamente consapevole. E quindi cerca, come può, di mitigarla. Procediamo con ordine.

Il vertice di Pechino dello scorso maggio ha certamente rafforzato il rapporto economico fra i due partner ma non quello politico e neppure quello militare. Xi Jinping mantiene un atteggiamento formalmente amichevole e gentile ma al tempo stesso distaccato e ambiguo. L’alleanza – più che l’amicizia, che nelle relazioni internazionali fra Stati è un sentimento che non esiste – si fonda sulla comune volontà di attenuazione del predominio internazionale americano ma per il resto essa è fortemente sbilanciata a favore del Drago cinese. Che dall’avventura ucraina dei russi ha tratto almeno due vantaggi considerevoli, anzi tre. Innanzitutto di natura economica, perché ha potuto acquistare da Mosca a prezzi assai vantaggiosi quel gas e quelle materie prime di cui ha assoluto bisogno per procedere nel suo oggi meno imperioso sviluppo economico. E questo vantaggio si consolida mese dopo mese fintanto che le sanzioni occidentali ostruiscono i canali commerciali moscoviti.

In secondo luogo Pechino gode dell’inevitabile impegno statunitense su un fronte, quello europeo, che la Casa Bianca (anche con Biden, sia pure in maniera più blanda rispetto al suo predecessore) aveva intenzione di rendere meno costoso per il proprio bilancio e che attenua quello dedicato al Pacifico, ovvero all’area che prioritariamente interessa alla Cina. Vantaggio che ne genera in automatico un terzo, in quanto essa può – attraverso Mosca – saggiare le reali capacità reattive degli occidentali di fronte a una crisi geopolitica significativa quale indubbiamente è quella ucraina, che si manifesta su un territorio, quello europeo, di sicura importanza (anche se non come una volta, ma da adesso possiamo di nuovo dire “come una volta”) per Washington e i suoi alleati. Misurare le reazioni oggi può essere utile per prevedere quali potrebbero essere domani a fronte dell’attacco a Taiwan, che resta nei piani della dirigenza cinese. La quale al momento ha constatato con soddisfazione che il giro di vite imposto a Hong Kong non ha provocato scossoni internazionali sensibili…

In questo quadro la visita di Putin in Corea del Nord, accolto dal dittatore Kim Jong Un non può aver entusiasmato i cinesi, quanto meno perplessi se non addirittura preoccupati dagli accordi nel settore militare siglati a Pyongyang. Non tanto per il rifornimento di munizioni da impiegare in Ucraina, evidentemente. Quanto per la possibile assistenza russa di natura tecnologica che rafforzerebbe un vicino regionale che Pechino considera un “amico” da tenere però sotto osservazione, visti i suoi proclami nucleari ovviamente invisi agli americani e ai loro alleati giapponesi e sudcoreani e dunque pericolosi per la stabilità nella regione, necessaria invece ai cinesi per poter ragionare lucidamente e con il tempo richiesto sul “che fare” a Taiwan.

Pure il patto di “reciproca difesa” in caso di attacco subìto da uno dei due contraenti non è stato gradito dietro le mura della Città Proibita, anche se al contempo si è avuta così conferma della debolezza del socio russo: costretto ad accordarsi e a stringere una “ardente amicizia” con uno stato reietto dalla gran parte della comunità internazionale.

La visita in Vietnam, seguita a quella in Nord Corea, ha da parte sua confermato il tentativo di Putin, senz’altro comprensibile dal suo punto di vista, teso a uscire dall’isolamento e a dimostrarne la capacità di reazione e quella diplomatica. Anche Hanoi ha dedicato all’ospite una calda accoglienza nonché la sottoscrizione di 11 memorandum, alcuni dei quali di cooperazione nei settori del nucleare civile, dell’energia, del petrolio: materie importanti e non secondarie, dunque. Ma niente di più.

Il Vietnam, paese guidato da un regime comunista assai aperto all’Occidente e in ottimi rapporti d’affari con gli Stati Uniti, ha inteso così rafforzare la sua posizione indipendente nel contesto geopolitico mondiale e tendenzialmente amichevole con tutti i suoi principali protagonisti: una politica – la cosiddetta “diplomazia del bambù”, flessibile con i venti ma che non si spezza – autonoma non particolarmente apprezzata da Pechino ma contro la quale non intende al momento far nulla, posto che con Hanoi già esistono frizioni in relazione al Mar Cinese Meridionale. Solo la conferma, per Xi, che il suo “amico” Putin è perfettamente consapevole della propria debolezza nel loro rapporto e cerca di adottare qualche contromossa. Ecco perché, certo, l’amicizia c’è, ma non è affatto “senza limiti”. Ci sono, eccome.