Mai si era visto un Presidente del Consiglio svolgere la sua requisitoria dai banchi del governo contro il suo vice-Presidente e ministro dell’Interno, mentre quest’ultimo, seduto accanto, platealmente accompagnava i vari passaggi dell’intervento con segni di dissenso, facendo smorfie o sfoderando sorrisetti di degnazione.
La crisi è stata portata in Parlamento, ma ciò non ha prodotto un guadagno in termini di stile e contenuti. Qualcuno ha parlato di corrida. È stata sciupata l’occasione, ornata di solennità, di mettere a fuoco le ragioni che hanno condotto al fallimento del “governo del cambiamento”, nato fuori da un esplicito mandato elettorale. Conte ha tagliato di netto il nodo gordiano della crisi, sancendo con la sua requisitoria l’archiviazione del rapporto con la Lega. Nel medesimo tempo, senza giravolte improvvisate, ha tracciato il solco di un’alternativa al ricatto sovranista, chiaramente riassunto nella rivendicazione di “pieni poteri” – così si è espresso Salvini – attraverso elezioni ridotte a plebiscito. Di fatto si è proposto come erede di se stesso.
Da oggi, dopo le dimissioni del Presidente del Consiglio, la partita è nelle mani di Mattarella. Lo è, in effetti, non solo ai sensi della Costituzione, ma anche per la “moral suasion” che può mettere in campo nel tentativo di evitare lo scioglimento anticipato delle Camere. Dovrà, per questo, capire come evolve il confronto all’interno del Pd, in particolare sulla cosiddetta discontinuità (che ridotta all’osso vuol dire immaginare proprio la rimozione di Conte). Non è un mistero che Zingaretti preferisca la strada delle urne e si tenga molto stretto, a tale scopo, un pretesto poco convincente agli occhi del Capo dello Stato. Ma il pretesto unifica davvero il partito? I segnali non sono affatto chiari.
Di chiaro c’è che Renzi userà tutto il suo ascendente per marcare una posizione di forte autonomia, anche a prescindere dalla linea della segreteria. Sgradevole è apparso l’attacco (pilotato?) di Francesco Boccia all’ex segretario Dem, come se il problema, nel bel mezzo della verifica politica in Senato sui destini del governo e della legislatura, fosse la pubblica certificazione di un disaccordo strutturale tra la maggioranza zingarettiana e l’area renziana. È vero però che nascondere l’esistenza di tale disaccordo è praticamente impossibile.
Ora, in un certo senso, preme sotto i carboni ardenti della crisi una dinamica nascosta che avvolge il bisogno di un nuovo “centro propulsivo”, capace di unire politica e società nella ripresa di uno slancio vitale, per uscire dal pantano dell’immobilismo. L’Italia non cresce da 25 anni. In tutto questo tempo ha dominato la logica del bipolarismo artificioso, sempre gravido per i teorici della democrazia decidente, nonché dei partiti a vocazione maggioritaria, di un bipartitismo ancora più artificioso. Non c’è dubbio che la cancellazione del centro abbia infine generato un vuoto di direzione politica. Da ciò deriva la considerazione in ordine al fatto che l’iniziativa di Renzi, con l’apertura ai Cinque Stelle, incrocia esattamente questa profonda esigenza di riordino.
Siamo a un passaggio decisivo nella vita democratica del Paese.