La retorica è un’arma terribile in mano alla democrazia moderna, ma le sue risposte non sono affatto convincenti. Da tempo la politica in Italia mostra la noia dell’inazione, il contrabbando del merito con la schiavitù dell’appartenenza, l’assenza di modelli sociali da proporre. I partiti si sono impadroniti da molto tempo del potere inteso come comando e non come servizio. Bisogna unire responsabilità e competenza.
La vicenda tutta italiana della sfiducia a Draghi ha spiegazioni contingenti ed empiriche nella partitocrazia che divora in un sol boccone tutto il know how accumulato in una carriera apicale dal Professore-Presidente, riducendo le sue eccelse competenze a merce di scambio con i luoghi comuni del potere al popolo, del ricorso alle urne, delle alchimie e dei distinguo da fissione dell’atomo. La retorica è un’arma terribile in mano alla democrazia moderna, ma le sue risposte non sono affatto convincenti.
Ancorchè clamorosa nel suo porsi nella solita cronaca da manuale Cencelli, essa è la punta di un iceberg, la parte visibile di un gigantesco baratro in cui la politica è finita da anni. Non è necessario scomodare i macigni che rotolano nella riflessione sullo stato attuale del mondo del compianto filosofo Emanuele Severino: la democrazia, il cristianesimo, la globalizzazione, la prevalenza della tecnica sul pensiero pensante, i luoghi comuni che sgretolano ad uno ad uno i puntelli su cui radica la cultura tramandata.
Possiamo aggiungerci l’affabulazione digitale, la privacy e la trasparenza, la rivendicazione di ogni diritto possibile nella dimensione antropologica soggettiva che manda in frantumi il concetto di sostenibilità.
Guerre, pandemie, alterazione irreversibile dell’ecosistema ne sono i derivati, di cui abbiamo una cognizione mutevole e cangiante che va dalle ricerche degli organismi internazionali, agli studi degli scienziati, fino ai discorsi da bar dove trionfa il feticcio dell’uno-vale-uno introdotto dalla democrazia virtuale, dai sondaggi, dal negazionismo preconcetto, dalla caienna senza fondo dei social dove influencer e tribuni del popolo hanno sostituito la civiltà dei valori come ancoraggi al naufragio contemporaneo.
Le ‘opinioni’ in nome della libertà di espressione riversano nel mondo della comunicazione e dell’informazione una pletora incontrollabile di fake-news – lo stesso Papa Francesco lo ha denunciato – che alterano irrimediabilmente convincimenti e orientamenti sganciandoli dalla razionalità e dal buon senso, fino a creare una sorta di limbo dell’indeterminato. Forse Umberto Galimberti si domanderebbe se esista ancora una via per cercare ed acclarare una verità condivisibile, che ci consenta di interconnetterci e comunicare, umanamente.
Si tratta di una tendenza di lunga deriva: leggiamo i Rapporti annuali del Censis solo nei giorni dei commenti di rito mentre dovremmo farne oggetto di riflessione più intensa e approfondita.
Ciò che sta cambiando il mondo sono gli eventi drammatici che alterano in modo esponenziale il concetto di normalità dentro una cornice di sostenibilità: ambientale, in primis, ma anche fisica, biologica, relazionale, sistemica. Ma poi ci sono le acuminate lance delle infinite soggettività prevalenti che generano uno stato di sospensione e di distacco dalla realtà, si avverte il bisogno di una guida e di una visione del mondo che non riduca i ragionamenti e le intuizioni alla mera gestione del presentismo prevalente.
Si percepisce una sensazione di logoramento e di consumo, non sono solo i ghiacciai che si sciolgono, è la fagocitosi di un antropocentrismo che vuole impossessarsi del mondo fino a distruggerlo.
A cominciare dal concetto di normalità, divenuto simbolo arcaico di intollerabile immobilismo, fino a rendere la stessa identità individuale e collettiva un modo di essere appannato e impermeabile al vero.
Ciò non riguarda solo il nostro Paese, ci sono derive planetarie di cui stiamo prendendo consapevolezza temendo una condizione di irreversibilità. Ma qui più che altrove, nel mondo occidentale, ci rendiamo conto che da anni, da decenni, la politica mostra la noia dell’inazione, il contrabbando del merito con la schiavitù dell’appartenenza, l’assenza di modelli sociali da proporre, che troviamo invece in altre realtà che hanno saputo sconfiggere – ad esempio – le piaghe della corruzione e della burocrazia.
La riduzione del numero dei parlamentari (a fronte di un risparmio risibile se rapportato allo sperpero del reddito di cittadinanza pensato e gestito in modo inadeguato) altererà il concetto di rappresentanza, con circoscrizioni elettorali sconfinate e candidature decise a tavolino non certo per meriti certificati: come al solito, come sempre non avranno spazio i migliori ma gli yes man di provata fede.
Bisogna interrogarsi sul perché non sia possibile un ricambio della classe dirigente del Paese: ciò è dovuto anche al fatto che il sistema scolastico difetta di capacità di orientamento, solida preparazione e selezione.
Persone come Mattarella e Draghi non sono la retorica di Stato che ci difende dall’arrembaggio del qualunquismo, dell’incompetenza e dalla bramosia dei partiti barattata come “deciso cambio di passo”: essi sono l’espressione del valore dell’esperienza, unita a solida cultura e competenza altrove non rinvenibile.
I partiti si sono impadroniti da molto tempo – attraverso una logica spartitoria – del potere inteso come comando e non come servizio. Ma la new age della politica come è stata formata? Quale senso civico ha appreso nella propria formazione? Quale preparazione ha maturato? Basti pensare all’intercambiabilità dei Ministri, scelti col bilancino del peso del partito piuttosto che per la specifica esperienza maturata ad es. in un ambito professionale, con esiti disastrosi. Si pensi all’economia, ma anche alla salute, all’istruzione.
C’è un deficit di fondo nella qualità della classe politica espressa dal Paese da alcuni decenni a questa parte, un vulnus attribuibile all’inadeguatezza della sua formazione che rimanda al declino del sistema scolastico, all’impreparazione favorita da logiche facilitative: lo certifica da tempo l’OCSE e dovremmo esserne consapevoli. Sta in questo gap formativo – oltre ai mali tipici della partitocrazia – una delle cause, forse la principale, delle crisi ricorrenti della politica che non riesce a gestire le evidenze dei suoi compiti: servire e guidare il Paese unendo responsabilità e competenza.
Non credo sia un azzardo affermare quanto sia determinante la formazione scolastica ed universitaria nella preparazione dei decisori politici, quanto e con quale peso specifico la “cultura” sia propedeutica ad una misurata, sapiente e lungimirante guida del Paese.