Tratto dall’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Sergio Valzania
«Non è vero che esiste una legge della “libertà naturale” degli individui nelle attività economiche. Non vi è nessun “contratto” che conferisca diritti perpetui a coloro che hanno o che acquisiscono. Il mondo non è governato dall’alto in modo che l’interesse privato e l’interesse sociale coincidano sempre, né è governato dal basso in modo che essi coincidano all’atto pratico». Così scrive John Maynard Keynes ne La fine del Lassez-Faire, pubblicato nel 1926 sulla traccia di una conferenza tenuta due anni prima.
Un’ottima occasione per avvicinarsi al pensiero, ma soprattutto alla personalità, del celebre economista inglese ci viene offerta in questi giorni da una nuova traduzione, fatta da Giorgio La Malfa, della maggiore delle sue opere specialistiche Teoria Generale dell’Occupazione, della Moneta e dell’Interesse accompagnata da un ricco corredo di scritti minori e da un imponente apparato critico, uscita nei Meridiani di Mondadori (Milano, 2019, pagine 315, euro 80). Il volume va messo in libreria vicino agli altri due testi fondamentali dell’economista inglese, editi in italiano da Adelphi: Le conseguenze economiche della pace, il saggio che rese famoso Keynes nel quale lo studioso condannava il comportamento punitivo da parte dei vincitori nei confronti della Germania sconfitta alla conferenza di Pace di Parigi del 1919, e Sono un liberale? Ed altri scritti che contiene tra l’altro un profilo del maestro, Alfred Marshall, nel quale l’autore sottolinea la derivazione diretta della cattedra di economia da quella di morale.
Forse quella che oggi più ci interessa, e conserva maggiore attualità, è la figura di John Maynard Keynes come moralista, proprio in quanto scienziato dell’economia, perché fu sempre capace di mantenere un solido e costruttivo rapporto tra due punti di vista la cui separazione, alla quale la contemporaneità sembra volerci abituare, rischia di risultare perniciosa. A proposito di Marshall, Keynes scrisse che per lui «questi studi erano una specie di lavoro religioso, per aiutare il genere umano».
Nonostante una vita caratterizzata da un accentuato anticonformismo, tipico delle élite britanniche della prima metà del Novecento, Keynes aveva un profondo rispetto per la tradizione religiosa. In una conversazione con Thomas Eliot ebbe a dire: «Comincio a rendermi conto che la nostra — la mia e la tua — generazione deve molto alla religione dei nostri padri. I giovani che crescono senza di essa non riusciranno a vivere appieno la loro vita».
La critica radicale al lassez faire — alla teoria economica classica fondata sul pensiero di David Ricardo e basata sulla convinzione che esistano leggi di mercato capaci di imporre un’autoregolamentazione degli scambi, dei valori e dei prezzi, alle quali è inutile e assurdo opporsi — discende dalla convinzione che l’uomo è chiamato a regolare il mondo dove vive e soprattutto ne è responsabile. Libero arbitrio e peccato originale sono due misteri che vanno presi in considerazione per comprendere le motivazioni, magari a volte inconsapevoli, dell’opera di Keynes.
Lo studioso inglese era convinto, come scrive in una lettera del 1938 a Roy Harrod, che «l’economia è essenzialmente una scienza morale e non una scienza naturale», utilizzando una terminologia che individua l’ambito delle proprie ricerche e ne tratteggia allo stesso tempo il carattere. Il vero economista, secondo Keynes specie rarissima per la molteplicità e soprattutto la differenza di talenti che gli sono richiesti, è dunque chiamato prima ancora che a individuare leggi matematiche, a collaborare alla costruzione di un umanesimo adeguato al mondo moderno, che ha subito trasformazioni violente e repentine, e ne porta le ferite.
Che l’uomo vada posto al centro della riflessione che riguarda l’economia, per lo studioso inglese è un fatto evidente. Sempre scrivendo a Roy Harrod precisa che «essa ha a che fare con motivi, aspettative, incertezze psicologiche. È come se la caduta della mela a terra dipendesse dalle motivazioni della mela: se per la mela valga la pena di cadere a terra, o se la terra desideri che la mela cada».
Perciò gli studi economici devono collegarsi strettamente con la cultura del tempo nel quale si sviluppano. Keynes fu attento alla psicanalisi di Freud e alla nuova fisica, il cui campo era stato aperto dalla teoria della relatività di Einstein. Nella lunga e attenta introduzione al volume, Giorgio La Malfa riflette su quanto l’aggettivo “generale” nel titolo dell’opera maggiore dello studioso inglese debba essere collegato alla denominazione della forma definitiva della teoria della relatività, appunto definita come generale.
La generalità della nuova teoria consiste infatti secondo Keynes nel ridurre la teoria economica classica a un semplice caso particolare: la situazione di piena occupazione. E proprio l’occupazione è la questione che interessa più di altre lo studioso, in quanto legata alla parte debole della società, che paga il prezzo delle crisi di fronte alla quale non si può semplicemente sostenere, come fa la teoria del lassez faire, che prima o poi passeranno e che il mercato riaggiusterà tutto. Il sogno di Keynes si proietta in un mondo futuro, quando, come scrive in Possibilità economiche per i nostri nipoti, «potremo finalmente permetterci di assegnare al desiderio di denaro il suo giusto valore. L’amore del denaro, per il possesso di denaro sarà, agli occhi di tutti, un’attitudine morbosa e repellente, una di quelle inclinazioni a metà criminali e a metà patologiche da affidare con un brivido agli specialisti di malattie mentali».
I nipoti di Keynes, scomparso sessantaduenne nel 1946, sono diventati nonni, ma la sua profezia sembra ancora lontana dall’avverarsi.