Don Sardelli è stato un punto di riferimento per tutti gli emarginati di Roma. Il Sindaco, Clelio Darida, prese sul serio la denuncia del sacerdote tanto da interloquìre pubblicamente con lui. Questo confronto è rimasto finora nell’ombra, anch’esso travolto dalla damnatio memoriae che ha colpito la complessa vicenda democristiana.
Angelo Zema
«Noi mandiamo questa lettera al sindaco perché è il capo della città. Egli ha il diritto e il dovere di sapere che migliaia di suoi cittadini vivono nei ghetti. Per scriverla ci abbiamo impiegato dieci mesi». È l’inizio della “Lettera al sindaco” presentata alla stampa nel settembre 1969. Frutto del lavoro di don Roberto Sardelli con i suoi collaboratori e soprattutto di quel popolo di dimenticati che abitava nelle baracche addossate all’Acquedotto Felice insieme al quale il sacerdote viveva da circa un anno.
Nato il 5 aprile 1935 a Pontecorvo, in Ciociaria, Sardelli aveva potuto incontrare don Milani e l’esperienza della sua scuola di Barbiana e approfondire in Francia la conoscenza dei preti operai; fu seminarista al Collegio Capranica negli anni del Concilio Vaticano II e il suo primo incarico in parrocchia fu a Vitinia, nella periferia sud di Roma. La svolta avvenne nel 1968 con l’arrivo a San Policarpo, la parrocchia a ridosso di quello che poi è diventato il Parco degli Acquedotti.
Dove oggi giocano bambini e ragazzi con il pallone, passeggiano le famiglie, si organizzano visite guidate e i suoi sentieri sono percorsi dalle biciclette, quell’anno il panorama era costellato di baracche. Una lunga serie che continuava anche a Tor Fiscale e al Mandrione. «C’erano dei “montarozzi” che nascondevano l’Acquedotto, le baracche erano tra gli archi, non si vedevano da lontano, bisognava imboccare un sentierino sterrato da via Lemonia che passava in mezzo alle baracche», ha ricordato una delle testimoni dell’epoca nel recente “Museo Pasolini” di Ascanio Celestini proposto dalla Rai. Era una vita tra fango e polvere, senza diritti. «I pozzi neri si trovano a pochi metri dalle nostre cosiddette abitazioni. Tutto il quartiere viene a scaricare ogni genere di immondizie a 100 metri dalle baracche. Siamo in continuo pericolo di malattie», si leggeva nella “Lettera al sindaco”.
Don Roberto vide quella realtà e decise di andare a vivere in mezzo a quell’umanità sfruttata, composta da immigrati provenienti in prevalenza dall’Abruzzo e da altre zone del Sud Italia. Diede vita a una scuola che prese il nome dal numero della baracca, la “Scuola 725”. Oltrepassando un cancello con una grande scritta rossa, arrivarono subito una cinquantina di ragazzi; era soprattutto «una scuola che formava per la vita», sottolineava lo stesso Sardelli. Dove c’era spazio per il Vangelo, Gandhi, Luther King, i giornali, la politica. La vita, appunto.
Da quella scuola che «portava il mondo nelle loro case» spogliate di diritti, nacque l’idea della “Lettera al sindaco”, centomila copie ciclostilate. All’insegna del “Non tacere”: «Diventò per noi uno slogan, gridare la nostra dignità», disse il sacerdote. Fu il segno più eclatante di un impegno che rafforzò i legami di umanità all’interno della baraccopoli, legami che poi si sfilacciarono in occasione del trasferimento degli abitanti, alcuni anni dopo, nel quartiere di Nuova Ostia, lontano dal centro e senza servizi. Un impegno accanto a quella “umanità scartata” cui don Sardelli non è venuto meno, neanche a distanza di tempo da quegli anni.
Se si era accostato al mondo rom a partire dalla danza, se aveva continuato a scrivere dalla parte dei più deboli su giornali e riviste, se aveva seguito per diversi anni i malati di Aids (ed è in quel contesto che lo avevo incontrato più o meno trent’anni fa durante una celebrazione nella casa famiglia della Caritas di Roma a Villa Glori), “i ragazzi dell’Acquedotto”, ormai diventati padri di famiglia, erano sempre nel suo cuore. Con loro don Roberto rilanciò quasi quarant’anni dopo lo spirito di quella “Lettera al sindaco”, riproponendone nel 2007 una aggiornata al primo cittadino della Capitale (Walter Veltroni), di fronte alle nuove emergenze che la città viveva: il fenomeno dei senza casa, la precarietà del lavoro, il degrado ambientale, il futuro della scuola, la crisi della politica, solo per dirne i più significativi.
Un lavoro di squadra cui aveva dato voce alcuni anni dopo anche un documentario, “Non tacere”, che aveva rievocato l’esperienza della Scuola 725 e la sua eredità. Un’eredità e una memoria che restano vive anche ora, a tre anni dalla morte di don Roberto (febbraio 2019). C’è un luogo che rappresenta un riferimento unico per coltivarla, ed è la Biblioteca Raffaello, all’Anagnina, non lontana da quell’Acquedotto Felice che ospitò la baraccopoli. È qui che Sardelli donò nel 2015 i suoi libri e l’archivio, i libri che usava a scuola con note e appunti, giornalini, disegni dei bambini, fotografie, lettere indirizzate a varie personalità, rassegne stampa, gli studi sulle origini del flamenco, ma anche la sua chitarra, il microscopio e la sua macchina da scrivere. E la Biblioteca alimenta la memoria del sacerdote con numerose iniziative, da una rubrica sui social attraverso i documenti del suo fondo alle otto interviste ai testimoni della Scuola 725 raccolte da Ascanio Celestini in collaborazione con il servizio Mediateca di Biblioteche di Roma. «Le esperienze della Scuola 725, delle scuole di borgata — dice una delle testimoni dell’epoca — sono ancora vive e insegnano quello che bisogna fare».