Il ciclo “Dodici parole. Un anno con Dante” è curato e scritto dall’autore del contributo qui riportato in ampio stralcio. Egli, nelle sue conclusioni, asserisce che “per Dante è lesistenza dello Stato e della Legge ciò che consente lesercizio della libertà”.

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Oggi, quando pensiamo alla libertà, intendiamo un insieme di cose molto diverse: libertà della persona; libertà di movimento; libertà di pensiero, di coscienza, di religione; libertà di opinione e di espressione; libertà di riunione e associazione; libertà di scelta del lavoro; libertà di prendere parte alla vita culturale; libertà di sviluppare pienamente la personalità; libertà di votare; libertà di definire la propria identità di genere. E pensiamo a tutte queste cose, e a molte altre, perché siamo fermamente convinti che «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti […], dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza», come sancisce la Dichiarazione universale dei diritti umani proclamata nel 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Il limite della libertà, per noi moderni, è un limite immanente: «Nell’esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà, ognuno deve essere sottoposto soltanto a quelle limitazioni che sono stabilite dalla legge per assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e delle libertà degli altri e per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell’ordine pubblico e del benessere generale in una società democratica» (Dichiarazione universale diritti umani, art. 29, c. 2). Per Dante, al contrario, la libertà è trascendente.

Lo studio della vita e delle opere di Dante, a scuola e all’università, dovrebbe partire dalle lettere, attraverso le quali si può ascoltare la voce chiara, esplicita e potente del poeta senza il filtro della narrazione, come accade invece nella Vita nova e nella Commedia. Di Dante conosciamo tredici lettere, tutte in latino, tutte scritte in esilio, che trattano argomenti pubblici e privati; una, la celebre epistola a Cangrande della Scala, è di attribuzione incerta. Le lettere sono estremamente istruttive, per molte ragioni. Particolarmente interessante è l’epistola VI, indirizzata da «Dante Alighieri fiorentino ed esule immeritatamente agli scelleratissimi fiorentini di dentro», vale a dire i fiorentini “intrinseci” che a differenza di lui, che sta in esilio, vivono ancora nella città. Dante la scrive il 31 marzo 1311, in una fase politica complessa. Pochi mesi prima era iniziata la discesa in Italia di Enrico VII, re d’Italia e di Germania, il quale, diretto a Roma per poter essere incoronato imperatore, affrontava l’opposizione delle città italiane. Firenze si era schierata contro Enrico stringendo un’alleanza con Lucca, Siena, Perugia, Bologna e con il re di Napoli Roberto d’Angiò. L’anno successivo Enrico assediava Firenze, senza successo.

Ecco come Dante si rivolge ai suoi concittadini (cito alcuni brani dalla traduzione di M. Baglio): «Voi che trasgredite il diritto divino e umano, che la malvagia voracità della cupidigia ha adescato rendendovi pronti a ogni infamia, non agita forse il terrore della seconda morte (la dannazione eterna), da che, spregiando per primi e soli il giogo della libertà (iugum libertatis), avete gridato fremendo contro la gloria del principe romano, re del mondo e ministro di Dio, e […] rifiutando il dovere di una dovuta sottomissione, nella follia della ribellione avete preferito insorgere»; «Vedrete i vostri edifici […] tanto rovinare sotto i colpi dell’ariete quanto essere bruciati dal fuoco»; «E se la mia mente presaga non s’inganna […] vedrete la città sfinita da lunga afflizione essere infine consegnata in mani straniere, la più parte di voi annientata o nella strage o in prigionia, pochi destinati a sopportare con pianto l’esilio»; «E non vi accorgete, poiché siete ciechi, della cupidigia che vi domina e blandisce […] vi trattiene con vane minacce e vi imprigiona nella legge del peccato e vi vieta di obbedire alle sacrosante leggi fatte a immagine della giustizia naturale; l’osservanza delle quali, se lieta, se libera (si leta, si libera), non soltanto è comprovato che non sia servitù, ma anzi per chi valuta con perspicacia è evidente che sia proprio somma libertà (summa libertas). Infatti, che cosa altro è questa se non libero corso della volontà verso un’azione che le leggi facilitano a chi vi obbedisce? Pertanto, poiché sono liberi soltanto coloro che volontariamente obbediscono alla legge, chi penserete di essere voi che, mentre avanzate a pretesto il bene della libertà, contro tutte le leggi cospirate contro il principe delle leggi?».

Leggendo questa lettera si possono chiarire alcuni aspetti fondamentali del pensiero di Dante. Prima di tutto, non era un patriota. Le discussioni sul “poeta della Nazione” dovrebbero muovere da qui, perché Dante si definisce “fiorentino” per nascita e non per costumi, annuncia ai propri concittadini atroci sventure se non si sottometteranno all’Imperatore (l’assedio, l’incendio, la strage, l’esilio), li accusa di trasgredire il diritto umano e divino, avvinti dalla cupidigia. Che Dante non fosse un patriota lo sapeva bene Machiavelli, che nel Discorso intorno alla nostra lingua scrive: «in ogni parte mostrò d’essere, per ingegno, per dottrina e per giudizio, uomo eccellente, eccetto che dove egli ebbe a ragionare della patria sua; la quale, fuori d’ogni umanità e filosofico instituto, perseguitò con ogni specie d’ingiuria».

 

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