Non si tratta di riorganizzare il centro sinistra per tenere insieme gli ambienti organici al progetto delle oligarchie economiche con pezzi di ceti popolari, bensì di recuperare l’autonomia culturale e politica del campo riformatore rispetto circa il modello di città da costruire.
Giuseppe Davicino
Posto che la riconciliazione delle forze collocabili fra il centro e la sinistra con i ceti intermedi richiederà molto tempo – sebbene particolari circostanze storiche e gruppi dirigenti diversi più che solo anagraficamente nuovi – possano accelerarne i tempi, rimane di primario interesse il dibattito su come superare una tale storica cesura.
Le amare considerazioni di Guido Bordato, affidate a una nota rete sociale, circa la possibilità di ripristinare questa naturale interazione, tanto più in una fase di crisi acuta e di aumento delle disuguaglianze, fra i ceti popolari e le culture politiche riformatrici guardando agli esiti scoraggianti conseguiti dal sistema istituzionale e elettorale francese, non inducono all’ottimismo quanto piuttosto alla costatazione, come ha fatto l’ex vicesegretario della Democrazia Cristiana, di una regressione in corso che richiama vecchie e collaudate forme di oligarchia. I ceti popolari tornano a esser tagliati fuori dalla vita democratica (niente come questo dato sancisce la sconfitta storica dei nostri tempi sulle conquiste del popolarismo sturziano) a vantaggio dell’establishment sì alto borghese, è tautologico, ma pure sindacale, in senso lato dei gruppi dirigenti dei corpi intermedi.
Osservazioni a mio avviso fondamentali che non possono che portare a conclusioni molto diverse da chi, come Giovanni Orsina, parlando di stagione “post-populista”, ritiene possibile per lo schieramento alternativo alla destra giungere a una conciliazione fra progetto globalista – inteso non come globalizzazione o rivoluzioni tecnologiche bensì come ideologia dei miliardari globali – e ceti, definiti dall’editorialista “periferici” ma che la Repubblica nata dalla Liberazione dal nazi-fascismo, aveva affermato come centrali.
Se, come rileva Bodrato, anche per effetto di sistemi istituzionali presidenzialisti, (si potrebbe aggiungere, credo, anche per una progressiva riduzione dell’esercizio del pluralismo delle opinioni e dei punti di vista nel discorso pubblico) la rappresentanza parlamentare viene pressoché monopolizzata da pezzi di establishment a scapito di una necessaria e insostituibile rappresentanza popolare, e se sta riemergendo un modello di governo basato su inedite forme di oligarchia, ci si dovrà attendere una accentuazione ulteriore piuttosto che una riduzione della separazione fra le forze di centro sinistra e gli orientamenti elettorali dei ceti popolari. Il discorso riguarda certo il Pd e la sinistra, ma non solo, vale anche per il centro. E più di tutti vale per i Cinque Stelle.
Se appare incontrovertibile il fatto che il M5S fino al 2018 abbia raccolto una indistinta protesta sociale, cosa molto più opinabile è se l’attuale partito guidato da Giuseppe Conte costituisca una forma di post-populismo, come sostiene il succitato Orsina, oppure sia stato, con ogni probabilità sin dalle sue origini, qualcos’altro. Vale a dire un soggetto politico nei fatti non paladino delle istanze popolari bensì uno strumento, in gran parte subdolo, di accompagnamento della classe media al ruolo riservatole dall’élite globalista: la decrescita economica, la caduta sociale e del tenore di vita, la sorveglianza e il controllo sociale attuata con la cittadinanza a punti, il de-popolamento, la completa subalternità economica, politica e culturale ai ristretti circoli dominanti. In sostanza, una forma di neo-feudalesimo.
Ma ciò che più lascia perplessi è la tesi di fondo di Orsina. Infatti, non si tratta di ricostruire una coalizione di centro sinistra che affidi al Partito Democratico il compito di tenere insieme gli ambienti organici al progetto globalista con pezzi di ceti popolari. Oltre che fallimentare per il Pd questa linea sancirebbe una strutturale mancanza di credibilità dell’area di centro agli occhi dei ceti lavoratori, e di debolezza nell’attrarre i voti di questi ceti sociali dall’astensione e nel contenderli al centro destra. Affermare la coincidenza tra progressismo e campo globalista significa, a mio avviso, decretare l’impossibilità di una alternativa politica democratica alla destra (poi si può sempre ritornare al governo avendo perso le elezioni, magari già nel corso di quest’anno, il Pd ha maturato una certa pratica in questo, ma è un altro discorso…).
L’operazione da fare credo sia invece un’altra. Non è la divisione, che pure esiste, tra beneficiari della globalizzazione, e delle nuove tecnologie, e danneggiati da tali fenomeni lo spartiacque tra una politica di solidarietà e una politica autoritaria. Il vero spartiacque è costituito dal modello di società. Ci sono, e sono la grande maggioranza, persone di ogni ceto sociale, dentro e fuori i meccanismi dell’innovazione, urbani e periferici che guardano con preoccupazione al futuro che intendono costruire, in particolare per l’Europa, i miliardari globalisti che, come ben intuì già ai suoi tempi il democratico John F. Kennedy, in Occidente usurpano il potere alle istituzioni democratiche. Guerre continue (perché senza l’apertura al multipolarismo non ci può esser pace in questo secolo). Impoverimento imposto da uno strumentale e distorto richiamo alla nobile causa ambientale. Utilizzo delle nuove tecnologie irrispettoso della dignità umana intesa non più come “persona” ma ridotta a “essere umano”.
La via da seguire per il centro sinistra non può che essere quella di mostrare almeno dei sussulti di autonomia da un tale disegno totalitario e antidemocratico, veicolato dalla tirannia del politicamente corretto. L’alternativa al sovranismo si chiama sussidiarietà a tutti i livelli. Che è cosa diversa dal governo mondiale dei miliardari. La capacità del popolo di percepire segnali di autonomia politica laddove si manifestino, viene spesso sottovalutata. Non appena le culture politiche di sinistra e quelle cattolico sociali compiono dei piccoli passi sulla via della riconciliazione con i propri valori e con la propria storia, è certo che le porte del dialogo con i ceti intermedi si riaprono. Questo allora sì che si potrà definire post-populismo.