Articolo pubblicato sulle pagine della rivista “Il Mulino” a firma di Daniela Arlia
Secondo le stime dell’Istat presentate nel Rapporto benessere equo e sostenibile (Bes) lo scorso marzo, il 2020 ha lasciato in povertà assoluta 335mila famiglie in più rispetto all’anno precedente. Parliamo di un totale di circa 5,6 milioni di italiani che non riesce più a sostenere le spese per attività e consumi necessari. Il maggior numero di poveri vive nel Mezzogiorno, ma il Nord ha visto in quest’anno un incremento maggiore del tasso di povertà (9,4%) rispetto al Sud (11,1%) e al Centro (6,7%), dove l’incidenza è ritornata ai livelli del 2018. Come si nota nello stesso Rapporto Bes, l’incremento della povertà assoluta tra gli italiani si sovrappone a un quadro pregresso di disuguaglianze e precarietà finanziaria, soprattutto nel Sud Italia, dove nel 2019 circa il 15% delle famiglie (meno del 5% nel Nord) si trovava in una situtazione di grave deprivazione materiale e arrivava a fine mese con grandi difficoltà. In regioni come Calabria, Campania e Sicilia, nel 2019 più del 30% delle famiglie era a rischio povertà e, negli stessi territori, il rischio povertà risultava fortemente correlato al livello di disuguaglianza dei redditi.
A parte l’aggravarsi generale del benessere economico degli italiani, in questa nota analizzerò due possibili ragioni dell’incremento maggiore del tasso di povertà assoluta nel Nord rispetto al Sud Italia.
Esistono diversi indicatori per calcolare il livello di povertà. L’Istat ha adottato una misura basata sui livelli di consumo. Secondo questo indicatore, una famiglia può considerarsi in povertà assoluta se la sua spesa complessiva è inferiore a quella necessaria per acquistare un determinato paniere, definito come paniere di povertà assoluta, che comprende beni e servizi ritenuti essenziali in base all’età dei componenti, alla ripartizione geografica e al comune di residenza. I beni inseriti in questo paniere sono raggrupati in tre macro-categorie: spese alimentari, abitative e residuali. Quest’ultime comprendono il minimo necessario per manutentare l’abitazione, vestirsi, spostarsi, istruirsi e mantenersi in buona salute.
Come nota l’economista Alfonso Rosolia in questa nota su «laVoce», la costruzione di questo indicatore si basa su alcune ipotesi di fondo – come la maggior parte degli indicatori statistici – che non sono neutri rispetto al risultato, e andrebbero forse adattati a contesti di shock atipici, come quello che stiamo vivendo. Infatti, analizzando le tre spese aggregate più nel dettaglio, quelle che hanno subito una più ampia contrazione sono quelle «residuali», ossia spese per abbigliamento, trasporti, servizi medici, istruzione. L’economista fa notare come queste spese si siano contratte (-19,4%) – più che come naturale effetto della contrazione dei redditi (-2,5%) – per ragioni pratiche legate alle restrizioni pandemiche: semplicemente, con le chiusure, non potendo spendere in beni come abbigliamento, trasporti, cinema, le famiglie non hanno speso. Questo vuol dire che, anche per le famiglie a basso reddito, la mancata registrazione di queste spese si è trasformata in risparmio. Il dato sembrerebbe confermato dallo stesso Rapporto Bes, in cui si nota come i risparmi delle famiglie siano quasi raddoppiati rispetto al 2019 (15,8% vs 8,2%).
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