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martedì, 5 Agosto, 2025
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Lingua, danza, oppressione e potere: il teatro di Marah Haj Hussein

Santarcangelo di Romagna, 5 ago. (askanews) – Uno spettacolo che può agire anche come un dispositivo semiotico, che intreccia storie e parole, intorno al tema della lingua e delle dinamiche di potere che presiedono anche all’uso del linguaggio. Marah Haj Hussein è un’artista palestinese che ora vive in Belgio e al Santarcangelo Festival ha portato la performance “Language: no broblem”. Un lavoro allestito come un’opera di poesia visiva, con i segni delle parole a essere protagonisti fisicamente, ma su supporti inconsueti, insieme a lei, attrice sul palco di un lungo racconto multilingue.

“Il tema della lingua – ha detto Marah Haj Hussein ad askanews – è qualcosa con cui siamo letteralmente cresciuti. Fin da bambini abbiamo conosciuto la nostra lingua araba, ma da sette anni si comincia a studiare l’ebraico a scuola. E questo è davvero usato come uno strumento di potere, e credi sapendo che saper bene l’ebraico offre a te palestinese molte più possibilità, una sensazione di maggiore uguaglianza, rispetto ai cittadini israeliani con cui vivi nella stessa terra”.

Le pièce unisce il racconto di Hussein a testimonianze audio e a storie che vengono dai territori occupati: e il modo in cui la lingua dominante lentamente soppianta quella dominata diventa del palco evidente: anche nei discorsi trascritti in arabo alcuni termini appaiono solo con i caratteri ebraici. “È una strategia, tristemente nota – ha aggiunto l’artista -: l’ebraico ha cominciato a infiltrarsi nell’arabo: oggi ci sono molte parole che in arabo si sono semplicemente perse, sostituite dalle parole ebraiche, che è il linguaggio del potere, del progresso, della tecnologia. È diventato il linguaggio del successo”.

Lo spettacolo, che vive di una sua forte coesione interna, unisce al racconto anche la danza, sia quella delle parole scritte, sia quella della stessa artista, che intorno a delle strutture geometriche costruisce un racconto fisico delle forme dell’oppressione, così come, viene da pensare, dei modi nei quali è possibile almeno immaginare una prospettiva di liberazione. “Quando ho cominciato a pensare di unire la danza e il teatro – ha concluso Marah Haj Hussein – ho trovato che entrambe le discipline potevano avere una componente astratta: io ho cercato di togliere questo elemento astratto e lasciare che si parlassero. Poi ho voluto spostare tutta la componente di astrazione nella scrittura e ho cercato di mettere invece una forte componente di realtà dentro la danza”.

Lo scambio si percepisce, così come si percepisce la dimensione di teatro del suo lavoro, la forza scenica della sua postura, la visione molto precisa di ciò che è il palco. E questa cosa, in un certo modo, forse troppo astratto soprattutto al tempo di Gaza, ci ricorda però che delle alternative esistono, che degli altri spazi esistono. Che esiste anche un’altra narrazione. Dire di più sarebbe vuota retorica, ma dimenticarlo appare altrettanto sbagliato. (Leonardo Merlini)