Il grande intellettuale e romanziere spagnolo Miguel de Unamuno, nel suo Come si fa un romanzo, edito da Ibis, scrive «Che m’importa che tu non legga, lettore, quel che ho voluto metterci, se vi leggi quel che ti accende la vita? Mi sembra sciocco che un autore si perda a spiegare quel che ha voluto dire, visto che non ci importa quel che ha voluto dire ma quel che ha detto, anzi, quello che abbiamo sentito».
La riflessione si riferisce a un contesto letterario, ma Unamuno era costante e attento lettore delle Scritture e la loro influenza sul suo pensiero è evidente. Nella sua riflessione sul rapporto creato dallo scrivere autore e lettore sono metafora, forse non volontaria ma proprio per questo particolarmente efficace, di Creatore e creatura. Più ancora è metafora la considerazione del loro rapporto, dialettico e rispettoso, continuo e nascosto: necessario all’esistenza di un luogo fisico e mentale nel quale incontrarsi.
L’autore divino manifesta la sua misericordia ritraendosi, facendo lo tzimtzum, come sostiene la teologia ebraica, lasciando spazio alle donne e gli uomini perché partecipino per la loro parte alla creazione, ne siano partecipi e quindi responsabili.
Imporre il nome agli animali, come racconta la Genesi, non è un atto di appropriazione. Piuttosto è la partecipazione umana alla creazione del mondo, la risposta alla chiamata iniziale raccolta nella formula dell’immagine e della somiglianza.
Unamuno coglie nell’attività dello scrittore questa vibrazione all’incontro necessario tra chi parla e chi ascolta, questo tassello posto a comporre il grandioso mosaico della creazione, alla base e a sostegno del quale è posto il mistero dell’incarnazione. C’è uno spazio di sacrificio infatti, nel consentire al lettore di appropriarsi del testo, escludendone in qualche modo l’autore, e di trasformarlo in una lettura che diviene proprietà assoluta di chi la effettua