Lo stadio della Roma è pane per i denti di Calenda

Chi può lanciare un discorso nuovo?

Cade il progetto di Tor di Valle. È un bene per la città, anche se attesta come sia complicato nella capitale eludere la “prassi inibitoria” di Caltagirone. L’imprenditore del cemento e dell’editoria quello stadio dalle parti dell’ex ippodromo, in un’ansa del Tevere subito dopo l’Eur, non lo voleva. Questioni ambientalistiche? Anche. È noto tuttavia che lo vorrebbe a casa sua, ovvero nell’area di proprietà dell’ateneo di Tor Vergata, dove vige un protocollo che permette senza di assegnare al gruppo Vianini (controllato da Caltagirone) le opere di natura edilizia. Nel quadrante ci sarebbe modo di sistemare con razionalità il (finalmente rilanciato) prolungamento della metro A e la migliore riutilizzazione della città dello sport (Vela di Calatrava) e quindi accelerare e rafforzare la straordinaria operazione dell’Orto botanico (voluto dal direttore scientifico dell’omonimo dipartimento universitario, professoressa Antonella Canini, già candidata alla carica di rettore).

A Tor Vergata lo stadio della Roma avrebbe una destinazione logica, in ossequio alle previsioni di sviluppo ad est che contempla il Piano regolatore ultimo, proprio sulla scia di quello approvato nel 1962-65. In sostanza, il Campidoglio dovrebbe aprire un confronto alla luce del sole, all’occorrenza chiedendo significative contropartite a beneficio della città, per una scelta che in effetti andrebbe a favore del vero e controverso dominus della politica urbanistica romana. Invece, in questi lunghi anni, si è seguito un percorso diverso, prima con Marino (Pd) e poi con la Raggi (M5S), coprendo gli interessi di Unicredit e Parnasi (finito male, strada facendo, per la solerte azione della Procura di Roma). L’intervento, calato su un’area che in teoria avrebbe dovuto o dovrebbe accogliere un Parco a tema, è andato avanti a fisarmonica, con un poco decoroso tiremmolla con i privati su cubature e servizi.

Dunque, si volta pagina. E allora sarebbe giusto mettere a fuoco il disegno urbanistico che s’intende realizzare. Andrebbe chiarito il futuro dell’Olimpico e affrontato l’altro corno del problema, ovvero lo stadio della Lazio. Sarebbe poi necessario stabilire cosa fare del Flaminio, destinato a un degrado inarrestabile a causa di vincoli ambientali e architettonici, con gli eredi del grande progettista, l’ingegner Pier Luigi Nervi, a difesa della preservazione strutturale e funzionale dell’impianto. Infine occorrerebbe valutare in che modo e in che misura questa operazione urbanistico-sportiva s’inserisca in una nuova visione dello sviluppo economico di Roma. Per adesso, nel dettaglio e in generale, non si veda nulla.

Chi può lanciare un discorso nuovo, non avendo il carico di responsabilità pregresse, deve rompere l’assedio del vaniloquio e dell’inconcludenza. Anche se si votasse a settembre, ormai s’annuncia l’imminenza dei primi fuochi di una campagna elettorale a cui si annette, nel giudizio unanime degli osservatori, grande importanza per la possibile rinascita di Roma. In questo scenario, l’ex ministro Calenda appare in effetti come homo novus nella sfida per il Campidoglio. Calenda ha deciso di andare avanti e non accetta di ritirarsi dalla competizione, neppure se il Pd optasse per la candidatura di Gualtieri o Zingaretti. Da lui i romani si attendono un colpo d’ala. Perché non cominciare con un esame rigoroso della “questione stadio”, finora gestita o meglio maneggiata tanto poco rigorosamente?