«La lotta dell’uomo contro il potere è la lotta della memoria contro l’oblio». [Milan Kundera]
Un paragone scomodo ma necessario
Può apparire azzardato tentare un confronto storico tra i coloni europei e i migranti contemporanei; tuttavia, tale paragone merita di essere affrontato, se non altro per confutare la narrazione sull’immigrazione oggi sostenuta da parte dell’attuale classe dirigente statunitense.
Per farlo, è necessario partire da un chiarimento preliminare: i nativi americani — impropriamente definiti “indiani” — non costituivano un popolo omogeneo. Erano invece organizzati in centinaia di nazioni differenti, con lingue, religioni, strutture sociali e stili di vita distinti.
La civiltà dei nativi americani
Alcuni gruppi erano agricoltori sedentari, altri nomadi dediti alla caccia o alla pesca costiera. Il tratto comune che li univa era il profondo legame con la Terra, concepita secondo una visione olistica: la natura non era una risorsa da possedere, bensì una realtà sacra con cui vivere in armonia.
Questa concezione si rifletteva anche nell’organizzazione sociale, spesso egualitaria o matricentrica, e in sistemi di governo complessi fondati sul consenso collettivo.
Le grandi aree culturali
Le principali nazioni native possono essere classificate in base alle aree culturali e geografiche in cui vivevano prima della colonizzazione.
Nelle Grandi Pianure vivevano popolazioni nomadi, cacciatrici di bisonti, come Sioux, Cheyenne e Comanche; tra i Sioux emersero figure storiche di rilievo come Toro Seduto e Cavallo Pazzo.
Nel Sud-Est prevalevano comunità agricole, tra cui Cherokee, Choctaw e Seminole.
Nel Nord-Est si distinsero gli Irochesi, riuniti in una potente confederazione di sei nazioni, nota per la sua influenza politica e per una struttura di potere con elementi democratici.
Nel Sud-Ovest vivevano sia agricoltori sia nomadi, come Pueblo, Navajo e Apache.
Lungo la Costa Nord-Occidentale, infine, si svilupparono popolazioni di pescatori e artisti, tra cui Tlingit, Haida e Kwakiutl.
La frattura della colonizzazione
Questo complesso ecosistema, fondato su un delicato equilibrio — nel quale i conflitti intertribali erano spesso ritualizzati più che realmente distruttivi — fu sconvolto dall’arrivo dei colonizzatori europei. La colonizzazione diede avvio a uno sterminio sistematico delle popolazioni native, risultato di una combinazione di fattori.
L’introduzione di malattie come il vaiolo e il morbillo, contro le quali i nativi non possedevano alcuna immunità, provocò milioni di morti. A ciò si aggiunsero guerre combattute con una schiacciante superiorità militare e tecnologica, nonché l’Indian Removal Act del 1830, che sancì la deportazione forzata di intere comunità.
Fame, deportazioni e acculturazione forzata
Fu adottata anche una deliberata strategia della fame: la distruzione sistematica dei bisonti, principale risorsa alimentare delle popolazioni delle Pianure, mirava a costringere i nativi nelle riserve. A completare questo processo vi fu l’acculturazione forzata, finalizzata allo sradicamento delle lingue, delle religioni e delle tradizioni indigene.
L’ultimo grande scontro, avvenuto a Wounded Knee il 29 dicembre 1890, segnò la fine delle guerre indiane e la definitiva sottomissione dei popoli nativi.
Migrazioni a confronto
In sintesi, i coloni europei usurparono le terre dei nativi americani: un atto che costituisce il fondamento della ricchezza e del potere degli Stati Uniti e i cui effetti si protraggono ancora oggi.
Ne consegue che i migranti europei insediatisi nel territorio statunitense furono guidati da una logica di colonizzazione e di sostituzione, orientata all’espropriazione della terra e all’eliminazione delle popolazioni originarie. Una dinamica che non è paragonabile a quella dei migranti contemporanei, i quali cercano prevalentemente opportunità economiche, sicurezza o protezione politica e aspirano a integrarsi nelle società di arrivo.

