Riceviamo e volentieri pubblichiamo
L’articolo di ieri su “Il Foglio” dell’ex leader di Lotta Continua, Adriano Sofri, lascia basiti.
Condannato per l’omicidio del commissario Calabresi, egli non si perita di richiamare il Presidente della Repubblica su ciò che deve dire e quanto deve dire.
Prende spunto dal Giorno della memoria per compiere sottilmente un’operazione di riscrittura della storia. Contrappone infatti il 9 maggio 1978 (via Caetani) al 12 dicembre 1969 (Piazza Fontana). La data, in ogni caso, è stata decisa da un libero Parlamento e va rispettata.
Coincide con la ricorrenza della uccisione di Aldo Moro, espressione più alta del sacrificio di un uomo di Stato, ed è dedicata a Lui e a tutte le vittime del terrorismo.
Le parole di Sofri confermano che la stagione della Verità e della Pacificazione è ancora lontana, lontanissima.
Permangono in vasti ambiti della cultura della sinistra ancora le teorie stragiste che hanno creato l’humus da cui è germogliato Il terrorismo che negli anni settanta ha insanguinato il Paese.
Schiere di intellettuali che assicuravano facilmente la loro firma a questo o quel manifesto, hanno indottrinato tanti giovani lungo un percorso di violenza e destabilizzazione, travolgendo ideali e scelte di civiltà. Hanno immolato, cioè, la loro vita inseguendo un disegno rivoluzionario, strumento di capi che si sono adagiati sull’onda di una fama e di una considerazione più o meno camuffata, certamente inaccettabile.
È questa la colpa più grave di cui si dovrebbero vergognare, facendo autocritica e raccogliendosi in un dignitoso silenzio.
Quando Aldo Moro il 6 aprile 1977, in un clima di escalation terroristica, parla a Firenze richiamando all’unità contro la violenza, lo fa perché erano state devastate sedi di partito e luoghi d’incontro. La sua denuncia è contro la “cieca ed irrazionale violenza sulle cose e sul significato profondo umano e politico che queste cose hanno“.
A cosa si riferiva? In verità erano state colpite sette sedi della Dc a Firenze, oltre quelle di Grosseto, e due di Roma. “Si contesta la Dc – disse Moro – perché essa è oggi come era ieri un grande ostacolo per coloro che volessero realizzare taluni obiettivi che noi non riteniamo non utili al Paese. Perché la Dc è la difesa non di interessi particolari, ma di intuizioni, di ideali, di valori che sono presenti nella società italiana: valori , ideali, intuizioni che il corpo elettorale ha dimostrato di non volere vedere trascurati”.
Moro aveva ben presente che “questa battaglia scatenata contro di noi è in fondo il segno di una nostra presenza efficace nella vita nazionale che si cerca di scardinare in qualsiasi modo“. Forse sarebbe bene rileggere l’articolo ritrovato in via Fani, non finito di correggere, sulla polemica tra due generazioni di comunisti (quella di Amendola e quella di Petruccioli) sulla esperienza del governo Tambroni, sulla rivoluzione del ‘68/69, su chi ha cercato con fermezza di respingere l’equivoca indulgenza verso chi voglia costringere con la forza ad una nuova forma di libertà, di convivenza e di consenso.
Perché Sofri insiste sul 12 dicembre 1969 e non sul 9 maggio 1978? Evidentemente perché vuole condannare una determinata matrice politica per la strage di Milano, con ciò preferendo “saltare” il riferimento all’assassinio di Aldo Moro. Vale la pena precisare, a riguardo, che il gesto terroristico veniva clamorosamente a colpire, con crudeltà, chi rappresentava il sistema di libertà e di democrazia, ovvero l’anima politica dello Stato che si voleva abbattere.