LONGUE DURÈE. LA DESTRA INTERCETTA IL MOTO DI RIFIUTO DEGLI ECCESSI DELLA GLOBALIZZAZIONE.

 

“Dobbiamo recuperare – scrive il dirigente del Pd, vicino al segretario Letta – il senso della “longue durèè”, della lunga durata, dello scorrere carsico e profondo del fiume della Storia nelle vicende umane”.

 

Enrico Borghi

 

Il dibattito sull’esito elettorale è fervente, e non potrebbe che essere così. Per fortuna, verrebbe da dire. Guai se assistessimo inerti e inani a ciò che ci sta attraversando.

 

Vorrei fornire un contributo personale all’analisi del voto del 25 settembre. Che non vuole essere in alcun modo autoconsolatoria o, peggio ancora, autoassolutoria. Ho già detto in diverse sedi pubbliche che chi -come me- ha avuto una qualche responsabilità in questo frangente, se le deve assumere fino in fondo anzichè fare spallucce. E chi mi conosce sa che, ogni volta, le mie responsabilità me le sono prese fino in fondo.

 

Ma qui il tema è molto più complesso, e molto più profondo, dei singoli destini personali. Magari avessimo perso le elezioni solo per alcuni errori (che pur ci sono stati) sulle candidature, o per qualche limite (che pò anche esserci stato) sulla comunicazione. Quando la politica non sa più fare analisi, la butta in corner dicendo che è un problema di persone e di comunicazione.

 

A mio avviso il tema è molto più profondo. E per comprenderlo, dobbiamo recuperare il metodo utilizzato dalla scuola francese degli storici degli “Annales” per lo studio della Storia. Dobbiamo recuperare il senso della “longue durèè”, della lunga durata, dello scorrere carsico e profondo del fiume della Storia nelle vicende umane.

 

La chiave per comprendere adeguatamente il processo in atto nella democrazia moderna in Italia, insomma, è la comprensione del passato. Quello recente ma anche quello più lontano.

 

Sono convinto, ad esempio, che il voto del 25 settembre in Italia sia l’epifenomeno di un processo in atto da tempo, in tutte le società occidentali in particolari: di fronte alla crisi della globalizzazione, che si è accentuata con la pandemia e la guerra (mondiale, ha ragione il Papa!), le destre hanno saputo fornire una loro chiave di lettura che ha convinto numerose opinioni pubbliche. È una chiave di lettura che poggia su elementi sedimentati della nostra struttura sociale. Si pensi, ad esempio, alla “longue durée” della civiltà contadina e del mondo rurale, che di fronte alle rivoluzioni industriali e tecnologiche hanno attraversato momenti di profonda trasformazione e di conflitto sociale che ha determinato processi di reazione e di rancore. Se oggi la destra mantiene, infatti, un insediamento maggioritario nei territori rurali, collinari, montani italiani è frutto di questo processo profondo di reazione e in alcuni casi di avversione verso gli impatti, spesso nefasti, dei processi di cambiamento indotti dalle rivoluzioni industriali, tecnologiche e digitali che hanno determinato lo sviluppo delle aree urbane. Da qui la dicotomia politica tra città – più orientate verso il progressismo – e campagne – più tutelate dalla logica reazionaria dei conservatori -.

 

La vittoria di Giorgia Meloni, al netto degli errori e delle divisioni di tutti coloro che a livello europeo si sono trovati nella “maggioranza Ursula” e in Italia si sono sprecati dentro la fiera delle vanità, dei personalismi, del narcisismo e dell’egotismo politico, è frutto di un processo globale di reazione delle destre alla crisi della globalizzazione. Un fiume carsico che di quando un quando riemerge in superficie, e produce il trumpismo negli States, Bolsonaro in Brasile, Orban in Ungheria, l’estrema destra in Svezia, Morawieck in Polonia, Vox in Spagna, la Le Pen in Francia e via discorrendo.

 

Dentro questa cornice, per non sbagliare la prospettiva dobbiamo avere anche coscienza di un altro processo di lunga durata. E cioè che viviamo in una parte del pianeta – l’Occidente – che ha perso la sua leadership globale, e che deve anche elaborare il fatto che non ha più anche l’egemonia ideologica sul mondo. Altro che “Fine della Storia” e affermazione globale del modello liberale (e talvolta liberista). Il nostro modello di democrazia liberale, insidiato all’interno da chi soffre di suggestioni verso le autocrazie, non si estende alle potenze mondiali in ascesa. Già oggi, e nel prossimo futuro, noi dovremo fare i conti con le autocrazie in Cina, in Russia, nel golfo Persico, con le teocrazie del Medio Oriente, con il dramma delle dittature africane, con il populismo di sinistra sudamericano. Siamo alla vigilia di una svolta globale, nella quale serviranno flessibilità ed equilibrio, e la consapevolezza che vanno riscritte le basi della democrazia.

 

E se non noi, che ci chiamiamo Partito Democratico, chi può farlo in Italia? Per rivitalizzare la democrazia, le nostre istituzioni e rispondere al ”flusso lungo” delle destre mondiali emerso anche in Italia, occorrerà un analogo processo di lunga durata e di approfondito scorrimento. Iniziando, magari, dalla riscoperta del ruolo economico dello Stato e nuove forme di coesione sociale, oltre che un atteggiamento pragmatico nelle relazioni internazionali. Sarebbe anche un modo per sprovincializzare un nostro dibattito interno, che il segretario Enrico Letta ha avviato con decisione ma che ha visto qualche eccessivo ripiegamento su logiche personalistiche sganciate da un’analisi e dalla elaborazione di un progetto.

 

Enrico Borghi

Deputato Pd