Prof. Ricolfi, in questi anni sono circolate molte definizioni di modelli di società: aperta, trasparente, scientifica, liquida, rancorosa, insoddisfatta, dei penultimi….

Definizioni basate per lo più su congetture ermeneutico-interpretative ad effetto. Nel Suo recente libro “La società signorile di massa” Lei descrive un tipo di società che si è andata configurando in Italia a partire dagli anni 60 e lo fa – da studioso di analisi dei dati – in modo direi fotografico e terzo, senza pregiudiziali ideologiche. Vuole riassumere il significato che attribuisce a questa originale deduzione sociologica? E perché questo tipo di società è un fenomeno direi esclusivamente italiano?

Veramente non c’è un significato che io attribuisco alla mia definizione, perché io uso le categorie sociologiche, ad esempio l’aggettivo “signorile”, in modo analitico-descrittivo, non etico-valutativo. Semplicemente, io ho ritenuto che il modo più conciso di descriverci sia quello di sottolineare che una condizione tipicamente considerata di élite, è divenuta di massa. Gli elementi essenziali della condizione signorile sono, fin dall’epoca feudale, la stagnazione dell’economia e l’accesso al surplus da parte di chi non lo produce. La novità è che anziché avere un’élite di signori (dell’ordine del 5% della popolazione), ora i signori sono più del 50%, circa 2 italiani su 3.

Quanto all’unicità del caso italiano io mi limito a constatarla, e a descrivere come ci siamo arrivati negli ultimi 75 anni. Spiegarla è un compito eccessivo per le mie forze, che lascio volentieri agli storici. 

La Sua analisi, ricca di dati statistici che la suffragano, evidenzia tre pilastri ‘connotativi’ che spiegano come è andata configurandosi una società signorile di massa in Italia: il risparmio e la ricchezza accumulata dai padri, la decadenza fino alla sua distruzione del sistema scolastico, l’affermarsi di una struttura di stampo para-schiavistico. In che misura questi tre fattori convergono e contribuiscono a strutturare una società signorile di massa?

Impossibile quantificare il contributo dei tre fattori, posso solo dire che tutti e tre sono necessari. Senza ricchezza accumulata e distruzione della scuola non vi sarebbe disoccupazione volontaria, senza la presenza di una infrastruttura para-schiavistica non avrei parlato di società signorile, e mi sarei limitato a riprendere o miscelare le definizioni classiche, tipo società dei consumi, società opulenta, società della comunicazione, eccetera.

Emergono – ad una lettura attenta delle derive che le hanno via via prodotte – tre condizioni compresenti nel tessuto sociale: il numero dei cittadini che non lavorano ha superato ampiamente quello dei cittadini che lavorano, l’accesso ai consumi opulenti si è generalizzato raggiungendo larga parte della popolazione, la stagnazione economica è causa-effetto del declino della produzione. Ma se l’ascensore sociale è fermo al piano terra come può verificarsi il fenomeno massivo dell’accesso generalizzato ed esteso ai beni di consumo?

E’ semplice: l’ascensore ha funzionato in passato (fino al 2007), spostando una parte considerevole della popolazione ai piani alti e medi. Ora l’ascensore fa qualche corsa all’insù e qualche corsa all’ingiù, ma i due tipi di corse si elidono: per ogni 1000 individui che salgono, ce ne sono più o meno altrettanti che scendono.  

Ecco perché parlo di “gioco a somma zero”: se il Pil non cresce l’ampiezza della torta resta costante, e il successo di ego diventa inseparabile dall’insuccesso di alter.

Già alcuni anni fa il Censis riferiva di una sorta di “sontuosità iperacquisitiva”, intesa come tendenza a vivere al di sopra delle possibilità generate dall’economia, dal lavoro e dalla produzione. La domanda che ci si pone è : “quanto potrà durare”? E sarà un fenomeno tipicamente italiano o l’incipit di una condizione emergente nelle società dell’occidente?

L’allarme sullo squilibrio fra produzione e consumo risale alla metà degli anni ’70, quando venne denunciato e descritto dall’economista Giorgio Fuà. 

Quanto potrà durare? Nessuno lo sa, se dovessi scommettere direi che, anche in assenza di crisi finanziarie, l’Italia non potrà andare avanti così per più di 10 anni.

Quanto agli altri paesi sviluppati, penso che – prima del 2050 – solo alcuni diventeranno società signorili di massa. Sulla base delle mie analisi vedo in pole position alcuni paesi a matrice cattolica o ortodossa: Belgio, Francia, Spagna, Grecia (se il suo Pil crescerà per almeno un decennio).  Quanto a Israele e ai paesi di matrice protestante tendo a pensare che la cultura del lavoro vi sopravviverà ancora abbastanza a lungo.

Trovo particolarmente significativo – oltre le chiavi di lettura prevalentemente socio-economiche che si usano per comprendere il senso della Sua intuizione sulla descrizione del presente, il riferimento alla decadenza e al declino del sistema scolastico. In una ricerca del 2011 il linguista e Ministro dell’istruzione Prof. Tullio De Mauro , ora scomparso, riferiva che il 70% degli italiani non è in grado di comprendere un testo di media difficoltà. Descrizione suffragata da un recente Rapporto dell’OCSE sulle competenze linguistiche al termine del ciclo di studi. Ma anche dai test Invalsi. Prof. Ricolfi, cosa abbiamo perduto nella nostra scuola, strada facendo? Dobbiamo attribuire ad una carenza di possesso degli apprendimenti basici – sostituiti dai cosiddetti “nuovi saperi”, al declino del prestigio della funzione docente, alle teorie della facilitazione pedagogica questa deriva involutiva?

De Mauro è stato una figura tragica: fu fra i primi a denunciare il basso livello di istruzione degli italiani, ma ha contribuito non poco – con le sue scelte politiche e pedagogiche – a perpetuare ed aggravare il trend che denunciava.

La sostituzione dei saperi tradizionali o “basici” con i nuovi saperi, leggeri e relazionali, non è la causa primaria del declino della scuola. La vera causa è la scelta di promuovere quasi tutti, i nuovi saperi sono solo lo strumento che ha permesso di rendere più indolore l’abbassamento dell’asticella. Se devo promuoverti e sei una capra di matematica, niente di più comodo che valorizzare le tue capacità relazionali, o il tuo talento musicale, o la tua attitudine a lavorare in gruppo.

Questo approccio, comunque, non è una peculiarità italiana, ma deriva dalla “teoria delle intelligenze multiple” di Howard Gardner, uno psicologo americano che ha messo a punto le basi teoriche del progetto di distruggere la scuola come luogo di cultura.

In tema di alfabetizzazione culturale occorre tenere presente l’incidenza delle nuove tecnologie e della tendenza alla digitalizzazione culturale. In Finlandia la letto-scrittura si apprende con i tablet, abolendo l’uso del corsivo: se questa tendenza dovesse diffondersi rischiamo di produrre una generazione di nativi digitali privi di memoria storica, deprivati dello studio dei classici, proiettati in una realtà dove il virtuale sostituirà la cultura finora consolidata e trasmessa?

In realtà lo stiamo già facendo, con l’importante differenza che l’Italia – da questo punto di vista – è meno avanzata degli altri paesi. E’ paradossale: la scuola italiana resta una delle migliori del mondo proprio perché non si è ancora modernizzata abbastanza. Questo è un punto cruciale della mia ricostruzione: il problema della scuola italiana non è la qualità dell’insegnamento impartito (che è peggiorata, ma resta migliore che altrove), ma la sua disponibilità a rilasciare titoli di studio sostanzialmente falsi, perché ad essi non corrispondono le conoscenze e le competenze che  certificano.   

Sì, il piatto pende nettamente dal lato exit. I nostri giovani emigrano per due ragioni: perché esiste un’élite autoselezionata che può permetterselo (anche in quanto ha studiato), e perché le prospettive di reddito e di carriera in Italia sono scoraggianti.

La bulimia legislativa –che connota l’Italia come Paese ad altissima produzione di leggi e norme– e il decentramento autarchico hanno incrementato le politiche di welfare sociale e prodotto una sorta di radicamento dei diritti soggettivi al sostentamento pubblico: l’Italia sta diventando il Paese dei bonus senza controllo? Dell’ ‘una tantum’ che diventa ‘una semper’? Come può la politica occuparsi prevalentemente di deroghe e concessioni senza mai introdurre filtri di controllo della spesa pubblica? Anche questo mi pare un fenomeno correlato al radicamento di una società signorile di massa. Il tema del controllo – interno, esterno, sociale – mi sembra eluso. Sbaglio?

Ha perfettamente ragione, ma qui la responsabilità principale è della politica. Se concedi dei diritti, e poi vai a controllare che non siano goduti abusivamente (false pensioni di invalidità, falsi poveri, falsi studenti bisognosi, eccetera), l’area del consenso si restringe inesorabilmente. Quindi meglio controllare poco e, soprattutto, non sanzionare.

In un saggio pubblicato sulla “Rivista delle Politiche sociali’, G. Sgritta e M.Raitano della Sapienza, pongono il  tema della sostenibilità generazionale che residua alla lunga stagione della “euforia previdenziale” la quale confidava  sulla fiducia che “il sistema” dei benefici e del welfare si sarebbe perpetuato ai nuovi ingressi nel mondo del lavoro.Quanto invece  il “Paese delle culle vuote” e invecchiato descritto in un recente Rapporto ISTAT può abbreviare i tempi di un inevitabile “redde rationem”?

E’ paradossale, ma a pagare il prezzo della lunga stagione dell’irresponsabilità previdenziale passata e presente non sarà la generazione dei baby boomers (la generazione del ‘68), ma saranno le nuove generazioni e le generazioni future. Tutti i privilegi che, durante l’era Conte, si stanno concedendo ai pensionati, diventeranno lacrime e sangue fra 20-30 anni, quando gli adulti di oggi dovranno spartirsi la magra torta dei pochi contributi generati dal manipolo sempre più ristretto dei lavoratori occupati (in un sistema previdenziale “a ripartizione”, qual è quello italiano, l’ammontare delle pensioni non dipende da quanto ciascuno ha versato all’Inps, ma da quanti contributi verseranno gli occupati futuri).

Chi legge il Suo straordinario volume coglie un certo pessimismo di fondo, a conclusione della Sua analisi. Ci salveremo? I corsi e ricorsi storici ci dimostrano che questo auspicio potrà statisticamente realizzarsi. Occorre tuttavia realisticamente fare i conti sui modi e i tempi di questa sopravvivenza del sistema. Sarà così o si prevedono fattori di accelerazione verso un inevitabile declino?

Il non far nulla è già, di per sé, un fattore di accelerazione. Il mio pessimismo non è aprioristico, ma si basa sull’osservazione del passato: a metà anni ’90 esisteva una diagnosi sostanzialmente condivisa sui mali e sulle esigenze dell’Italia, ma quasi nulla si è voluto fare da allora per affrontarli. Perché le classi dirigenti, che non sono state lungimiranti quando si poteva ancora agire, dovrebbero diventare improvvisamente illuminate oggi?