In Italia, in Europa e nell’intero Occidente si misurano cambiamenti epocali che hanno provocato una radicale mutazione anche della politica e delle sue categorie.
La grande crisi globale dei primi anni duemila non era solo economica e finanziaria.
Era in realtà l’epigono di una concezione dello sviluppo e della società.
Da un lato, erano evidenti i benefici delle nuove tecnologie e della globalizzazione, mentre dall’altro non si erano però elaborati solidi presídi politici, etici, culturali ed istituzionali capaci di compensare la forza e la pervasività delle innovazioni.
Il crescente differenziale tra le potenzialità enormi del nuovo scenario e le inadeguate capacità della cultura di capirne la natura ed i limiti, anche sul piano antropologico – e della politica di governarne gli effetti più perversi – hanno finito per mettere sotto scacco i sistemi di democrazia liberale.
La democrazia liberale – nella sua articolazione rappresentativa tipica del Novecento – ha così perso il suo carisma presso larga parte della popolazione.
Ne è nata una domanda politica radicalmente nuova, frutto della paura del futuro e del rifiuto di ogni istituto di mediazione ma assieme anche portatrice di una nuova istanza di protagonismo del singolo, contro ogni forma di élite.
Tutto ciò è accaduto in maniera scomposta, fuori da ogni mediazione culturale e politica capace di dare a questa fase il profilo di una evoluzione organica e condivisa.
Ed ha trovato nell’offerta populista e sovranista la risposta più gettonata e rassicurante.
Pur condividendo una profonda preoccupazione per questo scenario e per il futuro della democrazia, non credo però che questo momento di difficoltà e di transizione sia “la fine della storia”.
Potenzialità e positività si mescolano, infatti, in modo confuso e anche contraddittorio, con pericoli e insidie.
Ed in ogni caso, i nuovi scenari dettati dalla tecnologia, dalla conoscenza e dall’apertura dei sistemi sono destinati inesorabilmente a rafforzarsi.
Tocca a quella che conosciamo come democrazia liberale trovare la forza per cambiare, riconquistare il carisma perduto e poter così ancora rappresentare un riferimento credibile e autorevole per il popolo.
Ciò vale in primo luogo per le culture politiche e per i partiti.
Sono finiti i modelli del passato, ma c’è ancora bisogno di buona politica, di cultura, di valori, di competenza, di idealità.
Personalmente, appartengo alla vasta categoria delle persone “partiticamente apolidi” a livello nazionale. Condizione certo disagevole, ma – in questa fase – piuttosto felice per progettare e costruire futuro a partire da ciò che si muove nei territori, nelle varie comunità locali, nelle reti informali che si stanno costituendo tra i molti “liberi ma deboli”.
Trasformare tutto ciò nell’Unione dei nuovi “Liberi e Forti” deve essere l’impegno per il prossimo futuro: senza nessuna improvvisazione, frenesia da prestazione immediata o sottovalutazione del percorso tutto in salita che di sta davanti. Nella piena coscienza che le soluzioni non stanno affatto nelle congetture di tipo tattico.
E nella matura e responsabile convinzione che tra “popolarismo” e “populismo” – contrariamente a ciò che ha affermato su Interris Gennaro Sangiuliano – non esiste alcuna forma di contiguità valoriale, semmai irriducibile alterità, non solo di toni e di metodo, ma di ispirazione, di visione della democrazia e di concezione stessa di “popolo”, come bene ha argomentato su ildomaniditalia Dante Monda nella sua intervista.
Dobbiamo piuttosto avvertire come un “bene comune” e come un servizio alla democrazia la nostra vocazione a reinterpretare – nelle nuove modalità – i valori in cui abbiamo creduto e crediamo, perché possono essere essenziali di fronte alle tre emergenze più urgenti che ogni giorno diventano più impellenti.
1.
Ricostruire uno spirito di “comunità” che sia capace di finalizzare la spinta al primato dell’individuo, tipica di questa epoca storica, ad una nuova idea di “bene comune”.
A fronte del rischio di degrado valoriale della vita civile – ben evidenziato anche nel recente Rapporto Censis – ci appaiono come solidi riferimenti i costanti moniti al “nuovo umanesimo” di Papa Francesco e l’appello del Presidente Mattarella “ai buoni sentimenti che rendono migliore la società”, che ne costituisce la più persuasiva e convincente traduzione laica e politica.
Se da un lato le vecchie forme del “primato collettivo” si dimostrano obsolete e chiuse in se stesse, incapaci di interpretare sofferenze e ansie di larga parte del popolo, dall’altro va ribadito che non esiste nessun sentiero di futuro se non dentro la percezione di un destino comune e nell’ambito fecondo di una nuova etica della responsabilità, della solidarietà e del rispetto delle persone e dell’ambiente a livello locale e globale.
2.
Rianimare la democrazia e riscoprirne il respiro “comunitario” e “sociale”.
In larga parte dell’Occidente, la democrazia liberale e le sue forme rappresentative sono in forte crisi di legittimazione sociale e spesso anche di funzionamento.
Ma la democrazia non è solo costituita dal suo volto formale e procedurale.
Essa è innanzitutto un valore comunitario e sociale. E non può perdere la sua finalità che consiste nel perseguire con modalità pacifiche e condivise il valore dell’uguaglianza sociale e la piena valorizzazione dei talenti di ogni persona e di ogni aggregazione sociale.
Questa visione esclude ogni deriva “post democratica”.
Se gli istituti della democrazia sono in crisi, essi vanno riformati nel loro funzionamento e alimentati da una credibile visione di contenuto, non sostituiti con forme populiste, di fatto autoritarie, oppure con meccanismi che esaltano il solo rapporto tra le aspettative dell’individuo ed il potere (come appare nelle recenti ipotesi di democrazia diretta attraverso la Rete o attraverso una esaltazione dell’istituto referendario).
Per questo occorre che la crisi profonda dei partiti politici possa trovare un suo sbocco positivo, benché anche radicalmente innovativo: senza questo supporto fondamentale, la democrazia sarà sempre più a rischio di svuotamento ed i cittadini potranno avere solamente l’impressione di “contare”, ma saranno sempre più spettatori e non protagonisti della politica.
3.
Rifondare una idea europeista convincente e “calda”.
Non esiste futuro senza Europa e nessun errore, seppur grave, commesso negli ultimi tempi dalle leadership europee può legittimare una prospettiva anti europea.
È molto grave che un Paese Fondatore come l’Italia si presti oggi ad essere il grimaldello contro l’Unione Europea, assecondando così da un lato le posizioni dei Paesi del Patto di Visegrad e dall’altro gli interessi politici ed economici della Russia e degli Usa, i quali – attraverso le loro attuali leadership – scommettono contro il futuro di una Europa unita, forte ed autorevole nel quadro internazionale ed in particolare nel Mediterraneo e nei rapporti con le economie emergenti ad Oriente.
Non bastano i richiami retorici all’europeismo. Serve una forte iniziativa politica, che punti a strutturare le istituzioni comunitarie in maniera più ambiziosa ed efficace.
Ad iniziare dalla creazione di un Ministro dell’Economia della Zona Euro e dalla correlata messa in campo di Eurobond per finanziare grandi progetti di investimento sociale ed economico.
Solo così si potrà sconfiggere la deriva distruttiva nel sovranismo (altro nome del “nazionalismo” che ha portato disastri e sciagure immani nella storia europea) e riconciliare l’idea europea con le inquietudini e le attese del popolo.