Ogni volta che il nome dell’ex presidente della Bce Mario Draghi viene accostato a possibili futuri incarichi di vertice europei di natura politica, si crea una buona occasione per guardare al futuro dell’Europa in un modo più adeguato alle necessità del tempo attuale.
Succede anche in questi giorni dopo che l’incontro a Milano con una rappresentanza del mondo industriale europeo dell’ex presidente del consiglio, incaricato dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, di redigere un Rapporto sulla competitività, ha riportato l’attenzione dei media sulla figura di Draghi in ambito europeo, anche in seguito alle indiscrezioni diffuse dal Financial Times, secondo le quali a Bruxelles si starebbe pensando anche a Draghi per la successione al dimissionario Charles Michel per il ruolo di presidente del Consiglio Ue.
In realtà ogni ipotesi sui futuri assetti europei appare prematura per l’evidente ragione che a giugno si terranno le elezioni per il rinnovo del parlamento europeo e dal loro esito, insieme alla volontà dei governi dei Paesi membri, dipenderà l’attribuzione degli altri incarichi per gli organismi che compongono l’architettura, seppur incompleta, dell’Europa politica.
Tuttavia, non sembra privo di rilievo il fatto che ogni volta che in Europa si avverte aria di crisi, il nome di quello che può considerarsi il salvatore dell’Euro dagli effetti della grande crisi finanziaria del 2008, torna in ballo e registra un consenso ampio e trasversale a livello internazionale. Per questo è importante che prosegua e si estenda il dibattito su ciò che Draghi pensa della riforma dell’Europa e che lo scorso anno egli ha espresso in diverse occasioni al di qua e al di là dell’Atlantico, in modo chiaro sulle sfide che ci attendono.
Le idee di Draghi per l’avvenire dell’Ue superano lo schema che ha guidato il cammino dell’Europa dalla riunificazione tedesca e successivi allargamenti, quello che assegnava la priorità a regole interne che tendevano a prescindere da quanto accadeva all’esterno, per proiettarsi invece su una priorità diversa, urgente, decisiva e nel contempo ineludibile, perché impostaci dai tempi che cambiano. Quella di attrezzarci a coesistere, cooperare e a competere con soggetti, come gli Stati Uniti, l’India, la Cina e altri, che nel mondo sono incomparabilmente superiori alla “massa critica” di ciascun singolo stato europeo, compresi i tre più grandi, Germania, Francia e Italia.
Per raggiungere un tale obiettivo, pena l’insignificanza del rimanere come si è ora, serve un cambio di paradigma sul futuro dell’Ue. Draghi indica la via di un tale cambio di mentalità e di approccio nella sussidiarietà, anche se non la chiama così: il conferimento al livello comunitario di funzioni come fisco, difesa, i massicci investimenti per l’innovazione e per la transizione energetica e ambientale, che i singoli stati non sono più in grado di gestire efficacemente in un mondo che rapidissimamente ha visto alzare i requisiti per poter esser significativi su scala globale, a cominciare dal Mediterraneo e dall’Asia occidentale.
Una simile impostazione credo non possa che trovare un grande sostegno nell’area politica di centro. In particolare per la cultura e la tradizione europeista del cattolicesimo democratico e popolare costituisce uno sviluppo adatto a questi tempi dei principi posti a base all’inizio del percorso di integrazione europea. Non si tratta di tirare Draghi per la giacca in vista delle elezioni europee, ma di impegnarsi perché i temi e il metodo da lui indicati, al di là della sua stessa disponibilità ad assumere o meno incarichi, siano al centro dell’elaborazione e del dibattito politici nel Paese e in Europa, consapevoli di quale sia la posta in gioco per entrambe, l’Italia e l’Unione Europea.