Massimo Franco: “Il vuoto di visione e di coraggio apre spazi immensi ai populismi”

Massimo Franco prima di arrivare al «Corriere» ha lavorato ad «Avvenire», «Giorno» e «Panorama» come cronista, editorialista e inviato speciale. Dal 2002 è membro dell’International Institute for Strategic Studies (IISS) di Londra. Scrive di politica estera vaticana sul bimestrale dell’IISS, «Survival», e sul sito statunitense «The Globalist». Nel 2011 ha collaborato al sito del «Guardian» di Londra. Autore di numerosi libri di successo tra cui "Andreotti visto da vicino", "Tutti a casa : il crepuscolo di mamma DC", "La crisi dell'impero Vaticano", "Il Vaticano secondo Francesco", "L'assedio, Come l'immigrazione sta cambiando il volto dell'Europa e la nostra vita quotidiana", "Sono un ottimista globale. conversazione con Bill Gates", "L'Enigma Bergoglio", "C'era una volta Andreotti". Editorialista e notista politico del Corriere della Sera, è una delle firme più prestigiose del giornalismo italiano

Dott. Massimo Franco, le descrizioni che leggiamo nelle indagini e nei Rapporti degli Istituti di ricerca (ISTAT/CENSIS) ci riferiscono di una società delusa e sfiduciata, a volte rancorosa e cattiva, dove prevalgono atteggiamenti di indifferenza e di egoismo, di scarso senso civico. Eppure ci sono intorno a noi esempi e storie di solidarietà, altruismo, passione civile: basti pensare alle vicende di abnegazione nel periodo di crisi pandemica, a chi si prende cura del prossimo e lo fa gratuitamente, senza clamore mediatico. Il bene e il male sono dunque aspetti compresenti da sempre nella realtà: sono forse gli occhiali che inforchiamo che ci danno l’impressione di una prevalenza dell’uno o dell’altro? Oppure viviamo davvero una deriva di decadenza di valori e di “etica flessibile”? 

La sfiducia è inevitabile, e la sensazione che si sia arrivati a una sorta di spartiacque col passato la accentua. Nei periodi di crisi e di transizione accelerata, come l’attuale, emergono in modo più radicale le contraddizioni. E in qualche modo avviene un riassestamento dei valori, delle priorità, facendo emergere i comportamenti in modo radicalizzato. Quanto stiamo vivendo non capita all’improvviso.  Rimanda all’erosione progressiva della vita sociale avvenuta negli ultimi due decenni, almeno, con un’accentuazione di  quella che lei definisce decadenza e etica <flessibile>. L’impressione è che occorrerà tempo per riordinare i fondamenti della convivenza. Al momento non è facile fare previsioni. L’unica cosa certa è che una pandemia come quella che attraversiamo è un fattore di trasformazione rapida e traumatica, dalla quale la società risulterà cambiata; e, con la società, i rapporti umani e sociali, oltre che l’organizzazione del lavoro. Vincerà chi riuscirà a capire prima e meglio come sia opportuno rivedere le proprie certezze e prendere atto che le rendite di posizione del passato sono finite. Si tratta di una sfida impegnativa, che richiede una maggiore aderenza alla realtà e all’autenticità dei rapporti. Almeno in questo, può produrre effetti positivi.

Non ho mai creduto al teorema dell’anno zero: quello a partire dal quale nella politica, nelle istituzioni, nell’amministrazione della giustizia, della salute, dell’educazione come per magia ci sia qualcuno capace di materializzare la “città del sole” di Tommaso Campanella. Si vive una sorta di enfasi delle apparenze rispetto alla gestione della realtà. Abbiamo un nuovo Governo definito di alto profilo, che comprende volti nuovi e facce già viste. Viene anche denominato tecnico-politico: ma dove finisce un aspetto e comincia l’altro?

Su questo si fa molta confusione. In Italia i governi <tecnici> debbono comunque essere votati dal Parlamento, e dunque godere dell’appoggio di una maggioranza politica. Se poi ci si riferisce alla figura del premier e di alcuni ministri, anche qui è bene evitare la demagogia. E’ vero che Mario Draghi non è stato votato da nessuno. Ma anche il caso di Giuseppe Conte, da questo punto di vista, è eclatante. Non solo non era stato eletto dal Movimento 5 Stelle. Nel 2018 il M5S non l’aveva nemmeno candidato. E’ stato scelto sulla base di un patto di potere tra grillini e Lega nel 2018: due forze che si erano combattute escludendo di potersi alleare. E poi è stato riscelto nel settembre del 2019 per un patto altrettanto di potere tra M5S e Pd e Iv, anche loro in teoria incompatibili. Quanto alla composizione, mi pare che sia stata decisa con un compromesso tra partiti e premier. Ai dicasteri economici sono stati insediati ministri tecnici vicini a Draghi, per gestire al meglio i fondi europei per la ripresa; altrove, ministri espressi dalle forze politiche. Si tratta di una miscela in qualche modo inevitabile per garantire al governo quel consenso molto ampio che si è registrato; e che rappresenta un elemento di forza e insieme di debolezza. Credo che l’alto profilo sia garantito soprattutto dalla credibilità di cui Draghi gode nelle cancellerie europee e negli Stati uniti, come ex presidente della Banca Centrale europea: un ruolo che non si può definire solo tecnico. E’ questo ad avere spinto il capo dello Stato, Sergio Mattarella, a chiedergli di guidare il governo come ultima sponda per un’Italia disorientata da due anni e mezzo di premierato populista.  

Abbiamo vissuto una lunga stagione in cui si sono puntate tutte le fiches sulla globalizzazione come soluzione ai problemi economici, di uguaglianza sociale, di comunicazione e di conoscenza. Tuttavia con  esiti non sempre convincenti. Forse parte di quello che sta succedendo a livello di pandemia è figlio della globalizzazione intesa come conquista e sottomissione del mondo. Che fine ha fatto il genius loci? Quell’orto di casa a cui Ermanno Olmi diceva di ritornare per trovare le radici della nostra vita e delle tradizioni che troppo presto abbiamo calpestato? Preoccupati dalla crescita e dal progresso abbiamo perduto le nostre identità? Lo chiedo a Lei che ha incontrato Bill Gates e ne ha fatto un libro di successo. Esiste un problema di sostenibilità generazionale anche nel suo aspetto speculare a quello solitamente considerato: ci sarà una fascia di persone anziane estromessa (o vessata) dalla digitalizzazione della vita?

Credo che il genius loci inteso come tentazione di ritrarsi nell’<orto di casa> sia molto forte e altrettanto velleitaria. Che lo vogliamo o no, siamo connessi con il mondo, e l’idea di tornare indietro implica seri problemi di regressione, di decrescita e di subalternità. Semmai, il problema è come si declina la globalizzazione; come può essere accompagnata e non subita, e quale apparato legislativo va pensato e organizzato per evitare che, oltre ai benefici, comporti uno sfruttamento del lavoro tipico del Terzo e Quarto Mondo, e una concorrenza che distrugge ricchezza invece di contribuire a costruirla. Il tema non dovrebbe essere quello di rifiutare la globalizzazione, ma di conciliarla con una protezione dei diritti individuali e collettivi che al momento appare, a dir poco, intermittente. Credo che le fasce più esposte  non siano solo gli anziani, per motivi oggettivi di alfabetizzazione digitale, ma anche in generale le famiglie più povere  e meno scolarizzate, per le quali la didattica a distanza o lo smart working sono concetti astratti, non possedendo nemmeno un computer. La grande sfida della globalizzazione riporta al tema dell’istruzione, della ricerca, del collegamento tra scuola e università, e mondo del lavoro; insieme a un’eguaglianza di opportunità per uomini e donne. Lei accennava a Bill Gates. Be’, ricordo che proprio un globalista come lui aveva previsto con anni di anticipo che le nuove minacce all’umanità sarebbero arrivate non da conflitti armati tradizionali, ma da pandemie. La globalizzazione è anche questo: un interscambio di informazioni che può consentire di prevedere le sfide del futuro e dunque organizzarsi per contrastarle nel modo più efficace: cosa che col Covid non è stata fatta.     

Durante il lockdown le scuole hanno sperimentato la cd. “didattica a distanza”. I risultati sono stati però deludenti. A parte la scarsa dotazione di risorse tecnologiche delle scuole, a parte che il 30 % degli alunni del sud non hanno in casa un pc per collegarsi con gli insegnanti, è emerso quanto in un rapporto educativo, in una relazione siano importanti l’aspetto umano e la dimensione empatica. Lo psichiatra Paolo Crepet ha adombrato il pericolo che una didattica basata solo sulle tecnologie produca forme di incomunicabilità se non di comportamenti anaffettivi. La cd. D.A.D potrebbe essere una scelta per il futuro o è solo un momentaneo, utile ripiego? La Finlandia ha abolito l’uso del corsivo nella letto-scrittura: gli studenti usano solo il tablet per imparare a scrivere. Considerate le nostre tradizioni culturali una simile scelta potrebbe ispirare anche la didattica della scuola italiana?

Sulla prima parte ho già risposto prima. Per quanto riguarda la Didattica a Distanza (DAD), c’è da augurarsi che sia solo una parentesi. L’educazione e la formazione, in una parola la crescita personale hanno bisogno di rapporti umani veri, diretti, continui. Già i videogiochi e i telefoni cellulari accentuano la solitudine e un distacco dalla realtà che può avere effetti collaterali pericolosi. Non credo che, sia per i professori che per gli alunni, la DAD possa essere un modello.

Cosa manca a questo Paese per cambiare rotta? Basta un Governo con mandato a termine?  O serve un radicale cambio di passo nella selezione di una nuova classe dirigente, la ‘conoscenza’ delle cose, l’etica pubblica, il senso civico di cui pare siamo carenti. Servirebbe qualcosa di diverso dai siparietti delle fiction cui siamo abituati, insieme agli innumerevoli tavoli di concertazione. Debito pubblico crescente, corruzione ‘resiliente’,  burocrazia opprimente, politica inconcludente…. L’Italia è il Paese dei bonus senza controllo: nascono come ‘una tantum’ e diventano ‘una semper’. I pentastellati stanno attraversando una crisi senza precedenti eppure hanno ottenuto la conferma degli Esteri, la promessa di una espansione del reddito di cittadinanza, il ministero della transizione ecologica. Dipende dall’esser il primo partito in Parlamento? Draghi è il top ma si parte già con un compromesso al ribasso?

Manca la consapevolezza che non esistono scorciatoie per riprendersi. E invece, in questi anni, a cominciare dalla fine della Guerra Fredda, l’Italia non ha mai ritrovato un baricentro e un’idea di  quello che vuole essere nel contesto europeo. Si è andati avanti con una <cultura della scorciatoia> con la quale si proponevano soluzioni mirabolanti quanto illusorie; e proposte <facili>, <popolari>, di fatto già allora <populiste>, per le quali l’opinione pubblica non avrebbe pagato un prezzo. Il risultato è che queste scorciatoie hanno fatto perdere tempo, produttività, punti di Pil, e aumentato il debito pubblico del Paese: fino ad arrivare al 2018, quando al potere è arrivato un populismo che di tutti questi difetti è la conseguenza e il risultato finale, anche se non la causa. Oggi abbiamo un Parlamento nel quale la maggioranza relativa dei voti è del M5S, sebbene non più nell’elettorato; e la maggioranza assoluta appartiene a forze dichiaratamente populiste o sovraniste. Il governo Draghi è il tentativo di riportare almeno una parte del parlamento al principio di realtà e, se possibile, di <costituzionalizzarlo> su posizioni che tengano conto non solo delle nostre alleanze internazionali, ma delle compatibilità interne. E’ un compito molto difficile, dopo lunghi intermezzi di demagogia istituzionale e governativa, dagli anni di Silvio Berlusconi a quelli di Matteo Renzi, per arrivare a Conte. 

Come mai ogni volta che si deve decidere qualcosa di importante  si ricorre spesso alle task force con nomine di tecnici ed esperti, anche monomandatari su temi delicati come la sanità o la futura gestione del Recovery plan: non dovrebbero bastare i Ministri come esponenti diretti del potere esecutivo previsto dalla Costituzione? Sono scelte costose che allontanano le decisioni e svuotano la politica di alcuni requisiti imprescindibili, ad es. la conoscenza, la competenza, la responsabilità, proprio come più volte invece indicato dal  Presidente Draghi. Ora che guida lui il Governo ciascun Ministro sarà chiamato a rispondere di responsabilità dirette?

Se non si seleziona una classe dirigente degna di questo nome, rivedendo i meccanismi con i quali si fanno le liste elettorali e ricostruendo un percorso all’interno delle forze politiche che privilegi la competenza, si passerà sempre più da governi e ministri senza storia a commissariamenti progressivi delle istituzioni, senza spezzare questo circolo perverso. La parabola di questi due anni e mezzo dice questo. Ma, di nuovo: quanto è accaduto nel 2018 è figlio dei fallimenti delle classi politiche precedenti. I grillini sono figli legittimi di quei fallimenti. Il fatto che a Roma, dopo cinque anni di immobilismo devastante, la sindaca Virginia Raggi possa ancora ricandidarsi senza che le altre forze politiche abbiano ancora tirato fuori il proprio candidato o la propria candidata, conferma un vuoto di visione e di coraggio che apre spazi immensi a vecchi e nuovi populismi.  

La gestione della pandemia – senza un piano pandemico – attuata attraverso DPCM complicati e gestiti in regime di continuo conflitto Stato-Regioni ha prodotto un effetto moltiplicatore, con ricadute paralizzanti a livello organizzativo e producendo ansia e confusione nei cittadini. Il Parlamento è stato quasi esautorato dal dibattito sul “da farsi”. I presidenti delle Giunte regionali si autodefiniscono “governatori” per agire come tali ma questa qualifica non è prevista dalla Costituzione e produce un’enfasi funzionale che esaspera i rapporti con lo Stato centrale: non Le pare che occorra intervenire per evitare personalizzazione, diaspore e conflitti? 

Credo che i rapporti tra Stato e Regioni siano stati gravemente sbilanciati nel periodo in cui alcune forze come la Lega hanno cercato di inserire elementi spuri di autonomia nella Costituzione. Questo ha creato conflitti di attribuzione e di competenze, dei quali paghiamo le conseguenze a livello nazionale, per la creazione di <mini-Stati> e <mini-premier> a Nord e a Sud, in molti casi incapaci di gestire l’emergenza; e tendenti a scaricare le responsabilità sul potere nazionale. Non è un fenomeno solo italiano. Avviene lo stesso in molte parti d’Europa, dalla Germania alla Spagna. Ma si pone un problema di riequilibrio e di revisione del potere in modo da arginare in futuro fenomeni come quelli che stiamo vivendo, a scapito della funzionalità e dell’efficacia delle norme e dell’equilibrio tra poteri.

Il dibattito sul MES – già espunto dai temi degli Stati Generali- ha configurato schieramenti non allineati all’interno nel precedente Governo Conte. Il Prof. Cottarelli mi aveva detto: dobbiamo decidere presto e  accettare questa soluzione, anche partendo da una situazione debitoria. Perché per tutto il 2020 ha prevalso invece  il partito trasversale del rinvio: Lei prevede che Draghi prenderà una posizione netta su questo tema?

Ha prevalso per ragioni ideologiche: il M5S, così come la Lega e FdI, hanno demonizzato il Mes al punto da trasformarlo in tabù. E le difficoltà interne al mondo grillino hanno impedito qualunque passo avanti. Il fatto che Draghi abbia rinviato la soluzione non significa che il Mes sia inutile, anzi: a mio avviso continua a convenire all’Italia. La differenza è che, mentre con Conte il <no> appariva un omaggio ai veti del <suo> Movimento e a un antieuropeismo ancora presente nel M5S e a destra, l’attuale premier offre su questo punto garanzie evidenti. E dunque il rinvio della decisione semina meno allarme e perplessità di prima. Di certo, Draghi ha dovuto tenere conto dell’ostilità dei Cinque Stelle al Mes, essendo formalmente ancora la forza parlamentare maggiore. Essendo ancora più lacerati e in crisi di prima, i grillini temono che un cedimento su questo punto moltiplichi le fughe dal Movimento.

La crisi da Covid-19 ha scompaginato gli equilibri geopolitici e soprattutto geoeconomici. Le mire espansionistiche della Cina portano scompiglio negli assetti consolidati delle alleanze storiche, a cominciare dalla Nato. Si percepisce una svolta filo-cinese dell’Italia, a partire dal Memorandum sulla “via della seta del 2019”, le aperture fiduciarie durante la pandemia, gli accordi commerciali. Tuttavia va considerato che Joe Biden vuole riavvicinare gli USA all’Europa. Quali sono a Suo parere le prospettive dell’Italia nell’U.E.  e sul più vasto scacchiere internazionale? L’inazione – almeno in casa nostra – sembra prevalere, insieme alla logica del rinvio. Il passaggio dal Recovery Fund al RecoverY Plan è stato solo uno step nominalistico: in che misura possono ora incidere le priorità della “transizione ecologica” e della “digitalizzazione”?

La transizione ecologica è stato il contentino dato a Beppe Grillo, che doveva trovare una giustificazione all’appoggio al <banchiere Draghi>, demonizzato per anni dai suoi seguaci e da lui stesso.  Quel ministero è stato esaltato, sebbene al momento sia ancora quasi allo stato virtuale, per motivi squisitamente politici legati alla situazione dei Cinque Stelle. Quanto alla digitalizzazione, è un processo necessario ma che richiederà tempo. Le innovazioni tecnologiche non si fanno soltanto fornendo computer e possibilità di cliccare. Debbono entrare nella cultura e nella mente della gente, essere accettate e metabolizzate prima che usate. Ma sul piano internazionale non vedo inazione, anzi. Mi pare che il governo abbia dato una sterzata vistosa alla politica estera. Il raccordo con l’Unione europea e gli Stati uniti è esplicito, netto e rivendicato da Draghi. La lega ha dovuto attenuare i toni filorussi e schierarsi, seppure a malincuore, su posizioni atlantiste. E nel M5S certe tentazioni filocinesi sono rientrate rapidamente. Certo, non si può scommettere su una svolta così repentina da parte di alcune forze. Ma suggestioni pericolose come referendum per l’uscita dalla moneta unica, o addirittura minacce di un’uscita dell’Italia dall’Ue sono scomparse: comunque non si sentono più.    

All’apertura del Concilio Vaticano II papa Giovanni XXII mise in guardia dai “profeti di sventura, che annunziano eventi sempre infausti, quasi sovrastanti la fine del mondo”.  Da allora nulla fu più come prima: da Paolo VI a Wojtyla a  Francesco (“Il mondo sta cambiando e anche noi dobbiamo cambiare”), come la Chiesa è sopravvissuta alla secolarizzazione e al relativismo fino a diventare guida e faro del cambiamento? Cosa è rimasto del secolare “secretum et archivium” e in che direzione guarda la Chiesa della post-modernità?

La Chiesa mi pare parte integrante della crisi. E’ immersa nella crisi di identità dell’Occidente. La riflette, come riflette alcune derive del populismo. Cerca di reagire, di denunciare quello che non va, ma al momento non ho l’impressione che riesca a offrire soluzioni credibili. Ed è uno degli aspetti più preoccupanti di questa fase. Il primato morale della Chiesa mi sembra estremamente controverso: per i casi di pedofilia, per gli scandali finanziari, per le divisioni teologiche e in generale per una mancanza di unità interna che prefigura rotture e rese dei conti nel futuro prossimo. Il pontificato che guarda in direzione dei poveri e degli emarginati è una risposta, ma lascia aperti e irrisolti molti altri problemi; e soprattutto, fatica a offrire una bussola all’Occidente.