[…] Il richiamo alla dottrina mazziniana ha fatto piacere anche a me, la conoscevo bene, sapevo la risposta che forniva alle condizioni terribili di sfruttamento della prima rivoluzione indu-striale, condizioni disumane che non sto a ricordare a voi e che ispirarono anche le idee di Marx. Mazzini però insisteva su una concezione diversa da quella marxiana e probabilmente la storia gli ha dato ragione.
Però mi dovete consentire una riflessione. Mazzini forse sussulterà nella tomba per questo accostamento ma è vero che Leone XIII partiva da un’impostazione di fondo quantomeno simile a quella mazziniana.
Infatti nella Rerum Novarum si parte dall’osservazione dei guasti di questa prima industrializzazione che si allargava nelle valli del bergamasco, del biellese ed in Lombardia, con le prime fabbriche tessili e le prime fabbriche metalmeccaniche.
Già Scioscioli prima di me ha richiamato la sintesi del pensiero mazziniano.
Dentro la Rerum Novarum ci sono due aspetti ben chiari. Il primo: una posizione ferma rispetto alla predicazione del socialismo rivoluzionario, in particolare per quanto riguardava il ruolo dello Stato e il rispetto della proprietà privata. Ma anche una vigorosa richiesta allo Stato liberale italiano di arrivare a qualche primo risultato di legislazione sociale nonché parole chiare contro la repressione dei primi movimenti di protesta che mettevano assieme i lavoratori.
Queste due cose sono presenti chiaramente nella Rerum Novarum, magari senza una ulteriore elaborazione ma comunque presenti.
Non ci sorprende, guardando cento anni di storia, che sul versante laico più aperto e liberale della migliore dottrina di ispirazione sociale cattolica, questi due valori sono stati sempre tenuti insieme. A me fa piacere ricordare che prima della Rerum Novarum, la prima legge sociale dello Stato liberale italiano è stata emanata a Torino. Era la prima legge che regolamentava il lavoro dei minori negli opifici industriali, i quali versavano nelle condizioni che tutti quanti sappiamo.
È un’idea forte che ha avuto in Italia quale destino? Un destino non felice purtroppo. Noi abbiamo provato a riportarla in discussione dentro il sindacato ma debbo dire che allora – oggi stanno forse mutando le cose – con Cisl e Uil si era sostanzialmente d’accordo ma raggiungemmo scarsi risultati poiché fummo alla fine ugualmente divisi come sindacati.
Credo che il fallimento sia legato al tipo di capitalismo che. abbiamo avuto in Italia, un capitalismo molto legato ad un rapporto con lo Stato, senza quindi quella visione aperta che in altre situazioni abbiamo conosciuto. Ma le difficoltà vano ricercate anche nel tipo di sviluppo industriale. Gli anni
Sessanta hanno visto il cambiamento dell’Italia, la seconda rivoluzione industriale, con la diffusione di fabbriche fordiste dove il conflitto era infatti connaturato alla organizzazione del lavoro: lì c’erano le masse, il lavoro parcellizzato e forse era quindi inevitabile ciò che è accaduto. Negli anni Sessanta per la prima volta l’Italia ha conosciuto la piena occupazione, non si emigrava più nemmeno in Belgio o in Germania, ma ci si fermava a Torino, Milano, Vicenza.
Dentro le tensioni di conflitto trovo, se non accettabile come impostazione, comunque spiegabile il fatto che ci siamo trovati dinanzi a una Cgil molto dura su questa impostazione dottrinale ed anche ad un capitalismo italiano che in quegli anni non era disposto a seguire quella strada. C’era un conflitto che poi ha toccato forme che tutti, come sindacati confederali, abbiamo rifiutato. Questa è la ragione del mancato raggiungimento di una effettiva partecipazione dei lavoratori alle imprese.
Oggi il pensiero unico è in crisi, perché era sbagliato: lasciate tutto – diceva – regolerà il mercato non solo lo sviluppo, ma anche i rapporti sociali. Ci pensa il mercato anche se lascia stare ai bordi delle strade i più deboli.
Tutto questo è svanito e debbo dire – questo non è un complimento, ma a me fa piacere ricordarlo – che il sindacato italiano ha una sua vitalità anche politica, e quando c’è vitalità politica c’è anche vitalità di presenza. Perciò ho accettato di venire volentieri qui, oltre che per rivedere anche vecchi amici: la sfida del sindacato oggi non è quella che abbiamo conosciuto negli anni Sessanta fino agli anni Ottanta.
[…]
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