Il 3 ottobre Italo Bocchino, in una lunga intervista al Corriere della Sera, dava come inizio del bipolarismo le elezioni del 1993 per il Comune di Roma. Era «la prima volta che un sindaco veniva scelto direttamente dai cittadini. Lo schema su cui si lavorava, in memoria di un tentativo fatto da don Sturzo alle elezioni di Roma del 1952, era un’alleanza tra i centristi e la destra… L’operazione però naufragò e da lì si arrivò alla candidatura di Gianfranco Fini». Il resto è cosa nota, vinse Rutelli ma emerse il modello di un centro-destra, auspice Berlusconi, che abbatteva la pregiudiziale antifascista.
Chi avrebbe dovuto guidare la nuova Operazione Sturzo? Bocchino fa il nome di Rocco Buttiglione, ma in quel frangente il filosofo ciellino era nella cerchia dei collaboratori di Martinazzoli. Il leader bresciano, impegnato a rifondare l’aggregato politico che ancora s’identificava con la Dc, benché fosse vicino il passaggio al nuovo Partito popolare, si muoveva in una prospettiva rigorosamente di centro, con esplicita chiusura a destra.
Per altro, su Buttiglione pesava il giudizio di sfiducia che Vittorio Sbardella, infiacchito per la malattia ma sempre al comando del partito di Roma, non si peritava di nascondere. Per questo cercò di convincere Luca Cordero di Montezemolo, raccogliendo una disponibilità che svanì dopo che all’interessato non fu dato il via libera da Casa Agnelli. L’episodio non è trascurabile, anzi, se rivisitato con accuratezza, potrebbe aiutare a capire fino a che punto l’avventura di Berlusconi sia stata il frutto di una febbrile intuizione personale o non abbia goduto fin dagli albori del tacito consenso dei cosiddetti poteri forti.
Alla fine, nel quadro di una fattiva concertazione tra Piazza del Gesù e Piazza Nicosia – Sbardella sosteneva lealmente l’azione di Martinazzoli – si ripiegò sulla rispettabile figura del prefetto Carmelo Caruso, romano di adozione, venuto alla ribalta nella seconda metà degli anni Settanta come vittorioso antagonista, alla guida degli andreottiani, della segreteria «basista» della sezione dc di IV Miglio. Non riuscì ad andare oltre il 13 per cento e ciò contribuì a consolidare l’idea della fuoriuscita dalla gabbia del vecchio partito, con la speranza di sicura rinascita nel segno del popolarismo. La sconfitta di Roma si riverberò, nello spazio di due mesi, sull’assise di scioglimento.
Si può dire, insomma, che la ricostruzione di Bocchino non ha riscontro effettivo, salvo per la questione dell’innesco del bipolarismo. Infatti, se la vera Operazione Sturzo rappresentò una pericolosa insidia per la Dc, obbligando De Gasperi a prendere nettamente le distanze, il tentativo operato nel 1993 rimase nelle fantasie di una destra che all’improvviso sentiva di poter uscire dal suo storico isolamento. Nulla di più. La Dc ammainava le bandiere, forse con poca solennità, ma non con il «timore e tremore» di vedersi risucchiata nel vortice di un’opzione, chissà dove realmente coltivata, contraria alla natura e alla storia del cattolicesimo democratico.
P.S. Sulla vicenda è tornato ieri Aldo Cazzullo e, come già in altra occasione, ha colto l’occasione per pennellare un ritratto della Dc come partito di destra moderata. Con rispetto, si tratta di una distorsione.