10 dicembre 2018, in via Madonna dei Monti, davanti al civico 82 vengono divelte e portate via 20 “pietre d’inciampo” che ricordavano al passante di venti innocenti, dai 2 ai 70 anni, appartenenti alle due famiglie Di Castro e Di Consiglio, strappati alle loro vite nella maledetta retata del 16 ottobre ’43, deportati, umiliati e assassinati ad Auschwitz.

Esemplari cittadini italiani che avevano come unica colpa l’appartenenza alla religione ebraica  e quindi, grazie alle ignobili leggi razziali promulgate dal regime fascista unicamente per compiacere il potente alleato, non meritavano di vivere.

Troppo poco si è fatto per mantenere viva la memoria di questa tragedia.

A fronte dei 2.091 romani, italiani di religione ebraica, deportati nel periodo della occupazione nazista e con la compiacenza delle autorità italiane (1.067 uomini, 743 donne, 281 bambini) tornarono alle loro case 73 uomini e 28 donne, nessun bambino.

Far sparire le poche “pietre d’inciampo” romane – sono circa 200 –  vuol dire solo cancellare le tracce e lasciare che la polvere del tempo completi il lavoro.

Sono sconvolta e avvilita, non è la prima volta che accade a Roma ma mai in questa misura e ho paura che accadrà di nuovo. Negazionismo e ignoranza vanno a braccetto e cancellare il ricordo di quanto è successo rappresenta il presupposto perché il tutto si ripeta. Sin da bambina i miei genitori mi hanno parlato della Shoah e crescendo mi sono commossa vedendo film come “La vita è bella”, “Jona che visse nella pancia della balena”, “Schlinder’s list”, e leggendo il Diario di Anna Frank e lo sconvolgente “Se questo è un uomo” di Primo Levi.

Scoprire il male assoluto che ha caratterizzato i primi 50 anni del secolo scorso ed essere nata nella sua seconda metà, anni caratterizzati dalla richiesta di libertà, di diritti civili, di voglia di conoscere e sapere, di costruire una Europa Comune in cui far viaggiare uomini e conoscenze, merci e culture diverse, ha scatenato in me un morboso interesse a comprendere i meccanismi che hanno consentito a un popolo, che è stato il faro della evoluzione culturale europea degli ultimi secoli (arte, scienze e pensiero), di ideare e realizzare la Shoah.

Mi sono quindi ritrovata a studiare il profilo di quanti hanno avuto ruoli di responsabilità, dal primo livello a quelli intermedi in questa tragedia. A partire dai due uomini di vertice, Heinrich Himmler e Adolf Eichmann, che pensarono, misero a punto e pianificarono il “piano industriale”, che aveva come obiettivo l’estinzione della razza ebraica mediante l’eliminazione fisica di ogni suo rappresentante, arrivando a quanti si  assunsero direttamente il ruolo di esecutori nei campi di concentramento sparsi per l’Europa occupata: Amon Goth (Krakow-Plaszow), Rudolf Hoss (Auschwitz), Jurgen Stroop (Varsavia), Ilse e Otto Koch (Buchenwald), Josef Kramer e Irma Grese (Birchenau e Bergen-Belsen), e ,per finire, Erich Priebke e Herbert Kappler, tristemente noti per i loro crimini italiani.

Ma l’elenco è infinito, e il risultato? Più di sei milioni di esseri umani privati dei loro beni, separati dalle famiglie, privati dell’identità ridotta a un numero tatuato sul braccio, affamati e sfruttati come schiavi fino alla morte e infine trasformati in fumo affinchè di loro non  restasse traccia. Elemento comune a tutti questi personaggi era una esasperata frustrazione causata dalla sconfitta germanica nella prima guerra mondiale e dalle sue devastanti conseguenze socioeconomiche, dal basso livello culturale, dalla modesta collocazione sociale e spesso da precedenti giudiziari che andavano dai reati comuni a quelli a sfondo sessuale.

Altro elemento comune era la loro appartenenza alle SS, braccio armato del partito nazista totalmente autonomo e gerarchicamente sovrastante a ogni altra autorità operante nel paese. Le SS nacquero nel 1925 reclutando appartenenti delle SA per formare la guardia personale di Hitler. Nel 1929 Hitler nominò Himmler capo delle SS, che allora contavano 280 uomini.  Nel 1932 erano 52.000 e l’anno successivo raggiunsero i 209.000 elementi. Negli anni a seguire sarebbero ulteriormente aumentati.

Arruolamento, attribuzione di gradi e di mansioni erano esclusivo appannaggio del partito nazista, che ovviamente privilegiava uomini senza scrupoli, plasmabili, privi di qualsiasi coscienza critica, desiderosi di costruirsi una nuova identità con cui affrancarsi da una vita mediocre e mal sopportata, assolutamente fedeli.

In pochi mesi di addestramento l’impiegato o il disoccupato senza storia né futuro veniva trasformato nel teutonico eroe fasciato nella nera ed elegante divisa che incuteva ammirazione e soprattutto terrore: mai avrebbe deluso, messo in discussione o tradito il mago che aveva compiuto la metamorfosi. Bisognava ubbidire, condividere le direttive, andare oltre le aspettative, sorprendere. La banalità del male.

Il 7 maggio 1945 termina la seconda guerra mondiale in Europa.

L’8 agosto 1945 lo Statuto della Corte Penale Internazionale, chiamata a giudicare i responsabili dei crimini di guerra, definì come reati agli articoli 6,7 e 8 “l’apologia, la negazione o la minimizzazione dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra”.

Negli anni successivi la priorità era il ricongiungimento e la ricostruzione delle famiglie e delle case ma ben presto si iniziò a ragionare su nuovi sistemi integrati di convivenza tra le nazioni, finalizzati ad eliminare le occasioni politico/economiche di conflitto che avevano scatenato sia la prima che la seconda guerra mondiale.

L’Italia, memore delle sofferenze patite, con Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli, insieme a Konrad Adenauer, Robert Schuman, Joseph Bech e altri leader visionari ha contribuito a gettare le basi per la creazione dell’ Unione Europea in cui viviamo oggi. Senza il loro impegno e la loro motivazione non potremmo vivere nella zona di pace e stabilità che oggi diamo per scontata.

Successivamente si affrontarono anche aspetti che riguardavano il rispetto delle libertà individuali e dei diritti civili, il diritto alla libertà di culto, della conoscenza e del sapere.

La memoria storica venne riconosciuta come elemento di garanzia per scongiurare il ripetersi degli errori del passato e in questa ottica proprio dalla Germania venne promulgata nel 1985 la prima legge, articolata e completa, per combattere il negazionismo in ogni sua forma.

Il 28 novembre 2008 l’Unione Europea prende posizione contro il negazionismo con la Decisione Quadro (2008/913/GAI) del Consiglio sulla lotta contro ogni forma ed espressione di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale. L’8 giugno 2016 anche l’Italia approva la legge contro il negazionismo e da allora sono passati appena cinque anni ma quanto è cambiato il sentimento comune?

Crisi economica, fenomeni migratori e sicurezza, che sicuramente meritavano una miglior gestione, hanno contribuito a creare uno shock emozionale strumentalmente orientato a far diventare politicamente inevitabile quello che è socialmente inaccettabile.

Tutta la costruzione europea viene messa in discussione – oggi in misura minore rispetto a due anni fa ma perché pensare di averla scampata? –  e paradossalmente nel Gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria), paesi che hanno sofferto più di ogni altro e per più di sei lustri la totale perdita della libertà e ogni tipo di atrocità e devastazioni prima dal giogo nazista e poi da quello sovietico, trionfa la cultura della intolleranza e del negazionismo.

Paesi a cui è stato concesso solo nel 2004 di entrare a far parte della Comunità Europea e dalla quale hanno ottenuto tutte le risorse necessarie per recuperare più di mezzo secolo di arretratezza economica, culturale e sociale oggi ne mettono in discussione i principi fondativi venendo paradossalmente presi a modello da forze politiche sovraniste e nazionalpopuliste, anche nostrane, che hanno come comune obiettivo il ritorno a un nazionalismo autarchico tanto incompatibile quanto anacronistico in un sistema mondiale inesorabilmente orientato verso opposti modelli organizzativi.

Dal 1987 a oggi circa duecentomila studenti italiani grazie al programma di mobilità studentesca dell’Unione Europea Erasmus hanno avuto la possibilità di completare il loro ciclo di studio in università europee, migliorando la loro conoscenza e capacità di confrontarsi, integrarsi e comprendere altri modelli socioeconomici, in altre parole si sono formati alla globalizzazione.

Dal 2008 anno di inizio della crisi economica l’immigrazione italiana nei paesi UE, sempre più giovane e sempre più qualificata, è passata dalle circa centomila unità l’ anno ai duecentocinquantamila registrati nel 2017. Di questi il 34,6% con licenza media, il 34,8% con diploma e il 30% con laurea. I rientri sono calcolati in circa trentamila unità l’ anno e a loro va attribuita la maggior parte delle startup innovative create nel nostro paese.

Nel momento della crisi l’Europa ha quindi creato opportunità lavorative a giovani qualificati e ha formato una moderna imprenditoria che ha riportato in Italia innovazione e linfa vitale per l’occupazione e l’economia.

Ancora lunga potrebbe essere l’elencazione delle opportunità e dei vantaggi già ricevuti e ancora da cogliere dall’appartenenza a una Comunità Europea che ha mostrato evidenti criticità,  sicuramente perfettibili, ma la loro conoscenza può essere fatta solo studiando, leggendo, documentandosi e viaggiando e non cibandosi passivamente di quanto in modo strumentale e incontrollato viaggia sul web.

Memoria storica, cultura, integrazione e costruzione di una coscienza critica rappresentano quindi le armi più potenti che una democrazia moderna ed evoluta ha a sua disposizione per affrontare e superare le difficili sfide che ci aspettano negli anni a venire e su cui con ogni sforzo dobbiamo puntare.